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Vita di Lomec

di chinalski

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Il mio nome è Lomec.
Cammino lento e senza esitazioni nel deserto, i piedi sono scalzi e ruvidi e strisciano sui ciottoli; mi sembra di non fare alcuna fatica a muovermi, nonostante siano almeno dieci ore che cammini ininterrottamente, ma nello stesso tempo non ho alcun interesse a camminare, lo faccio controvoglia. La mia pelle è grigiastra come il cielo, i miei vestiti sono grigiastri come i capelli, e i miei occhi sono grigiastri, sulla spalla porto un sacco di tela grigio, che pare un animale smunto, senza più carne tra pelle e ossa, e una ghirba, vuota. Anche io sono come svuotato, sono un sacco di cuoio in cui hanno inserito un'anima di ossa, e che si muove in modo fluido, senza scosse, senza farci attenzione, come se non avesse scelta e non ci fosse null'altro da fare: da ormai molto tempo non ho una meta né qualcuno che mi aspetti al termine della camminata.
Il mio nome è anche Guillaume.
Da anni vivo tra la Mongolia , la Cina e la Russia , lontano dalle città, dagli uomini, dagli animali, ma prima la mia vita era diversa: prima avevo girato il mondo, avevo conosciuto posti e persone, avevo imparato cose importanti e cose futili, avevo vissuto, avevo gioito e avevo sofferto, avevo amato, ed ero stato abbandonato da chi amavo; avevo riamato, e di nuovo ero stato lasciato; avevo amato ancora e ancora, finché capii che la mia vita sarebbe stata sempre così, che non poteva che essere così, e nello stesso tempo non poteva continuare a essere così. Allora mi stabilii qui, nel cuore dell'Asia: c'ero venuto per stare finalmente da solo, per non vedere, conoscere, amare nessuno, per potere ricordare il mio passato e per non pensare al mio futuro.
Il mio nome è Altamapee, Nestor, Kunitaro e molti altri.
Ho avuto tanti nomi e una vita sola, lunga quanto quella di nessun altro.

Nacqui nei dintorni di Uruk, in Mesopotamia, quando Uruk non era ancora la città che sarebbe diventata successivamente, da una famiglia di agricoltori. Durante l'infanzia ebbi una crescita fisica molto lenta, rispetto ai miei coetanei, e sembrava che potessi morire di debolezza da un giorno all'altro; ma ero molto intelligente ed ero in grado di imparare qualsiasi cosa vedessi anche una volta sola. Nonostante fossi piccolo e gracile sapevo usare gli strumenti di lavoro come neanche gli adulti erano capaci, ottenendo i raccolti migliori dai campi, per questo motivo mi era stato affidato il compito di organizzare il lavoro di tutta la famiglia. Quando ebbi undici anni mi accorsi che una cosa per me normalissima, come il ricordarmi nitidamente a distanza di mesi e anni le frasi esatte dette da qualcuno, la sua espressione, i miei pensieri, la posizione di ogni singola foglia dell'albero in fondo al prato, fosse in realtà una cosa strana per tutti gli altri uomini. Avevo una memoria che mi permetteva di rivivere totalmente, a distanza di anni, una giornata trascorsa, istante per istante, nei minimi dettagli e sensazioni, senza tralasciare nulla, che fosse importante o ininfluente. Riuscivo a ricostruire nella mia mente esattamente ciò che avevo vissuto nel passato, facendolo scorrere a piacere, più velocemente o più lentamente della realtà, apprezzando ogni singolo particolare e sensazione che avevo provato nel momento reale.
Mi ci volle molto più tempo invece per accorgermi che i miei genitori, zii, fratelli, cugini, figli, nipoti e gli altri uomini morivano di malattie, di incidenti, di vecchiaia, mentre io sembravo non dovere morire mai. Niente di particolarmente evidente dall'esterno: semplicemente non morivo; mi ammalavo, mi ferivo, ma non morivo. Mi interrogai a lungo sul motivo di questa stranezza, ma non ne venni a capo; pensai allora di trarne un vantaggio immediato: raccontai alla mia gente che il dio Anu mi era propizio e che mi proteggeva, poi che il dio Anu era mio padre. Divenni così sacerdote e re, e regnai sui sumeri, assumendo vari nomi ed entrando nei miti di quello e di altri popoli. Passarono dei secoli, e mi accorsi che non era questo che cercavo nella vita: non volevo regnare su altre persone, imporre leggi, essere idolatrato. Me ne andai dal mio paese, e da allora cercai di vivere come gli altri mortali, per quanto mi fosse possibile nascondere la mia particolarità.
All'inizio di questa nuova, lunga vita ero entusiasta di potere provare tutte le esperienze possibili, di non dovere scegliere come spendere il mio tempo, di potermi ubriacare di tutto: non c'era nessun filtro tra me e la vita, le occasioni mi si presentavano e io le coglievo, e grazie alla mia memoria ciò era per sempre, senza l'oblio che il tempo impone al passato, e le mie conoscenze si accumulavano. Questa fame di azione e di esperienze riusciva anche a farmi sopportare la necessità di spostarmi periodicamente, di cambiare il luogo dove vivere, di abbandonare le amicizie, per nascondere a tutti la mia natura di immortale, di mostro.
Da allora feci tutto e provai tutto: comandai, e seguii chi mi comandava; andai in guerra e vissi in pace; lavorai, oziai, fui ricco e vissi nella povertà, provai la fame, il caldo, il freddo, la pioggia; dormii in palazzi imperiali e sotto mucchi di stracci; giacqui con donne, uomini, bambini; uccisi e curai; generai figli e li abbandonai. E specialmente fuggii: fuggii dal mondo, dalle persone odiate e, ancora di più, dalle persone amate, sempre in fuga dal dolore di avere amato qualcuno solo per vederlo morire, oppure in fuga prima di iniziare ad amare qualcuno, per evitare che mi venisse strappato dalla morte.
Questo accadde per lunghi anni, per secoli, fino a che il mio interesse per il mondo e per le sfaccettature della vita scemò, e il reiterarsi dei giorni, uguali a quelli, innumerevoli, già vissuti, divenne non più una benedizione ma la peggiore delle maledizioni che si possano augurare a un uomo. Dopo tanto tempo tutto mi era diventato indifferente, tutto ciò che mi capitava era già noto e vivo nella mia mente, niente riusciva più a stupirmi, a incuriosirmi o anche solo a non annoiarmi; le uniche cose che rimanevano vive nella mia anima erano i dolori e le crudeltà che avevo visto o che avevo provato: nella mia mente tali ricordi erano laceranti come nel momento in cui erano avvenuti, e mi tornavano in mente più spesso di quanto avrei voluto. Ero oppresso da tutto il male che avevo visto, e che non riuscivo a dimenticare. Quanto bene ci vuole per redimere il male? O quanto male serve per annullare il bene? Qualcuno diceva che avrebbe salvato un'intera città peccatrice se avesse trovato anche solo un uomo giusto tra i suoi abitanti. Però, provate ad amare una donna, a ricoprirla di attenzioni e di amore. Basta una sola azione malvagia di un uomo, di un assassino, per togliervela per sempre, per annullare tutto ciò che si era costruito e che si era progettato. Questo dolore era amplificato dalla coscienza che la mia vita non sarebbe finita, che non potevo aspirare a giungere, al termine, a riposare l'anima, ma che avrei dovuto continuare ad andare avanti, a ricordare forse per l'infinità.
Nel frattempo il mondo si era trasformato, ed era più difficile nascondersi per uno come me: le persone venivano ora identificate con più precisione, e non era più facile come una volta spostarsi e ricominciare una nuova vita: c'erano i documenti, i conti in banca, le anagrafi, e tutto ciò faceva sì che non fosse più possibile per me vivere in molte parti del mondo. Per questo motivo, e anche per rifuggire alla gente che mi annoiava e che non sopportavo più, andai nel mezzo dell'Asia, nel deserto, nelle steppe, nelle pianure immense e desolate, e lì chiedevo solo di potere camminare sotto il vastissimo cielo, di ricostruire nella mia mente i momenti vissuti e, magari, di potere avvicinarmi alla morte.

Cammino sulla distesa di ciottoli e terra da giorni, sopra la testa un soffitto di nuvole ocra, si sta facendo sera e mi avvicino al lago dove innumerevoli volte mi ero fermato a dormire, in vista delle montagne nere. A un tratto scorgo a terra qualcosa di anomalo, qualcosa di leggero che si fa strada tra le pietre, il cielo opprimente, e i ricordi della mia vita interminabile: posata a terra c'è una piuma bianca, impalpabile, un oggetto che non vedevo da molti anni, e che non mi sarei mai aspettato di vedere nel cuore del deserto del Gobi: a centinaia di chilometri da qualsiasi essere umano, animale o uccello, si trova una candida e morbida piuma bianca.
La vista mi si appanna, e qualche lacrima scende sulle guance di ruvido cuoio. Mi sento lieve, come senza peso, come senza sofferenze, finalmente in pace con tutti e con me stesso, pieno di poesia e di malinconia. Erano secoli che non piangevo più, che non amavo più qualcuno o qualcosa tanto da sentirmi unito ad esso, e ora mi capita con una piccola piuma bianca. Amo quella piuma: amo la sua debolezza, la sua inadeguatezza, la sua volatilità, il suo candore e specialmente la sua caducità. Vedendo quella piccola porzione di un essere vivente ho un'intuizione e comprendo: comprendo di essere ancora in vita perché non ho mai saputo come morire, mentre ora sento di averlo capito, di sapere come morire.
Mi adagio lentamente su un fianco senza staccare lo sguardo dalla piuma bianca, che non oso toccare per non distruggerne l'incanto, sullo sfondo il profilo delle montagne nere, il lago in lontananza. Poi chiudo gli occhi lentamente, rido, dopo tanto tempo, e finalmente muoio.

 

Pubblicato a luglio 2009.

Parolata.it è a cura di Carlo Cinato.
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