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Il Fabbri citante

Rubrica a cura di Piero Fabbri

Utili Divertenti Letterarie Sparse Novità


Stadium

[Parlando dello Juventus Stadium e dei problemi di pronuncia che genera, N.d.C.] Beh, in verità, se si vuole davvero restare fedeli al latino, qualche problema la squadra bianconera ce lo pone subito.
Gli è infatti che la "J" che felicemente la contraddistingue è lettera assente dall'alfabeto latino originario, per lo meno per tutto il tempo in cui gli antichi Romani spadroneggiavano in lungo e largo per il Mediterraneo. La loro gioventù era nomata "iuventus", con la placida e familiare "i". La "j" compare inizialmente solo come vezzo grafico, ad esempio per mettere in evidenza l'ultima di una serie di "i" nelle numerazioni romane (per scrivere "13", ad esempio, talvolta si scriveva XIIJ anziché XIII), e assume una dignità appena più significativa solo attorno al 1500, dove viene (talvolta) usata per distinguere la "i" normale dalla "i" dei dittonghi (jella, juta, ajo…).
Ma pare che i dizionari seri, pur registrandola come segno grafico nelle parole suddette, non la distinguessero dalla "i" fino a Novecento inoltrato, nel senso che se dovevi cercare "jella" nel dizionario, l'avresti trovata certo dopo "ibis", ma prima di "ifigenia". Poi, gli anglicismi post-guerra mondiale hanno ratificato il disastro. La Juventus ha il suo bravo dittongo iniziale, e forse per questo ha mutato il latino puro "Iuventus" in "Juventus": certo è che, in qualche modo, il nome della squadra, in qualche maniera, riflette anche il periodo storico in cui è nata. Basti pensare che anche il nome della lettera è ignoto ai più: tutti la chiamano "gei", seguendo la fonetica inglese.
Prova a chiedere come si chiama in italiano...


Maggiorata

Orbene, una parola che è entrata nei dizionari attraverso il cinema è "maggiorata", aggettivo sostantivato destinato a designare le fanciulle particolarmente dotate di attrattive fisiche, specialmente nella zona del corpo usualmente destinata ad ospitare le glandole mammarie.
Il film in questione è "Altri Tempi" di Blasetti, e in particolare l'episodio (dacché di film a episodi si trattava) "Processo a Frine". Il mitologico personaggio di Frine era quello di una donna talmente bella che, si racconta, durante il processo a suo carico il suo difensore improvvisamente la spogliò di fronte ai giudici, esclamando: "Possiamo condannare questo?".
Blasetti, parodiando il mito, costruisce l'episodio con De Sica avvocato difensore di una prorompente Lollobrigida, accusata e processata per qualcosa, terminando con la battuta storica (cito a memoria): "Se la legge prevede delle attenuanti speciali per i minorati psichici, non dovrebbe fare lo stesso per le maggiorate fisiche?", con duplice contrapposizione minorato/maggiorata e psichico/fisico.
La battuta ebbe successo al punto che "maggiorata", anche se ormai tornato quasi nell'oblio, fu per un po' termine assai usato nelle cronache mondane, quando ancora non si chiamavano gossip.


Confesso che la proposta della Parolata [di accentare il "sé" anche in concomitanza delle parole "stesso" e "medesimo"] mi trova totalmente d'accordo, al punto che l'ho messa in atto da prima ancora di conoscerla.
Confesso anche di non ricordare d'aver mai avuto maestre che mi imponessero l'uso del "se stesso" non accentato: o sono stato fortunato, o sono stato assente ad una lezione cruciale di grammatica. Quando sono uscito dalla rosea età scolare, mi è capitato di chiedermi quale potesse essere la regola, visto che il "se stesso" è decisamente maggioritario, nei testi, rispetto a "sé stesso". E ho pensato che forse c'era una licenza di omettere l'accento perché, come dice Serianni e La Parolata, la possibilità di confusione con il "se" ipotetico era disinnescata appunto dal seguente "stesso".
Però, diamine, ho sempre pensato fosse appunto una licenza ad omettere, non un obbligo, e ho sempre scritto "sé stesso", anche perché, scrivendo su tastiera e non con inchiostro, la fatica è la stessa.
Mi ero perfino interrogato se la licenza potesse valere al plurale ("Gli uomini pensano solo a se stessi"), perché mi pare di ricordare che il "sé" pronome al posto di "loro" sia comunque lecito. E di aver concluso che non poteva valere, perché in quel caso la confusione, per quanto resa improbabile dal contesto, è possibile a causa dell'ambivalenza di significato di "stessi", visto che oltre al plurale di "stesso" potrebbe valere come voce verbale di "stare": ("Se stessi sbagliando, vi prego di farmelo notare").
E avevo concluso che una "licenza ad omettere l'accento" che vale solo per il singolare e non per il plurale non poteva essere altro che una boiata, quindi ho sempre scritto "sé stesso".
Adesso, se le maestre che impongono di omettere l'accento in "sé stesso" avessero ragione, se davvero si trattasse di regola impositiva e non di licenza all'omissione, scopro di aver seminato in giro svariate centinaia di errori.


Sé - 2

Apprezzo molto la caccia che alcuni lettori della Parolata stanno facendo per trovare un caso in cui "sé stesso" abbia una valenza diversa da "se stesso": sono forse solo dei divertimenti per adulti (non in quel senso lì...) ma mi piacciono molto.
Del resto, ricordi? Tu stesso mi hai mandato in sollucchero una volta, scrivendo – non so ancora quanto consapevolmente – una frase di senso pieno e compiuto che conteneva la bellezza di cinque "sia" consecutivi. È stato quando ci hai illuminato con la tua ricerca sulle forme "sia... sia..." e "sia... che...". Ormai va di moda usare la prima forma e giudicare sbagliata la seconda (e quindi è reputato giusto dire "sia bianchi, sia neri", sbagliato dire "sia bianchi che neri"), ma la tua ricerca mostrò che le due forme erano del tutto equivalenti, e ci comunicasti il risultato scrivendo "è quindi lecito scrivere sia sia sia sia sia che".
A dire il vero, non ricordo se lo scrivesti proprio così o nella forma più punteggiata e virgolettata " è quindi lecito scrivere sia "sia... sia..." sia "sia... che..."". La forma virgolettata è più chiara, ma vedere due livelli di virgolette in letteratura è strano, se non addirittura proibito.
E però il discorso delle virgolette è importante: in fondo, il discorso letterario è "logos", e "logos" è anche la radice primaria della logica; ed è dai tempi di Bertrand Russell che sappiamo che l'autoreferenza è insidiosa e generosa al tempo stesso. Gli autori letterari spesso omettono le virgolette, e nessuno gliene fa una colpa, probabilmente giustamente. Nel tuo caso, ad esempio, i cinque "sia" tutti di seguito sono leggibilissimi, e molto più divertenti che nella forma correttamente punteggiata.
Certo, se fosse sempre possibile seguire questa strada, allora saremmo a cavallo. Se potessimo evitare gli ammonimenti di Bertrand Russell sull'autoreferenza (o anche solo sulla referenza), gran parte dei nostri problemi sarebbero risolti. Infatti, se sono obbligato a scrivere "stesso" quando mi riferisco alla parola "stesso" e non al suo significato, è un conto; se posso invece evitarlo, è un altro. In qualche modo, stiamo chiamando in causa anche un'altra rubrica della Parolata, direi, quella neonata sulla punteggiatura.
Però è importante, perché è del tutto evidente che se stesso posso scriverlo anche senza virgolette, allora il problema di trovare un "se stesso" diverso da "sé stesso", lo abbiamo appena risolto, proprio in questa frase.


E/o

Ho una piccola idiosincrasia che spero La Parolata possa aiutarmi a decantare.
Ascolto molto la radio (e per forza... 4 o 5 ore di macchina al giorno...) e adesso trasmettono spesso un (peraltro benemerito) spot di istruzioni per il ballottaggio del voto amministrativo di comuni e province. In questo comunicato si sente una bella voce femminile che recita, con inappuntabile pronuncia, qualcosa del tipo "Presso alcune amministrazioni si terranno i ballottaggi per l'elezione del sindaco e/o del presidente della provincia..." e poi il comunicato prosegue con le istruzioni del caso. Si chiude poi con qualcosa che suona, più o meno: "... verrà eletto sindaco e/o presidente della provincia il candidato che riceverà il maggior numero di voti."

La mia personale idiosincrasia è verso la forma "e/o". È solo un mio vezzo, per carità, però mi sembra che possa davvero causare degli errori, come in questo specifico caso. La particella "o" in italiano ha sia valore esclusivo che inclusivo: se dico "ballo o canto" non commetto reato se ballo, se canto, e neppure se faccio le due cose insieme, perché è legittimo prendere il significato inclusivo. Se dico "vivo o morto", invece, la logica mi fa capire che in questo caso l'"o"è meramente disgiuntivo. Ci si può lamentare del fatto che l'italiano sia troppo poco preciso, se proprio si vuole: il latino aveva la bella coppia "vel" per l'inclusivo e "aut" per l'esclusivo (un po' come l'OR e lo XOR informatico), ma insomma, la lingua è come è, e secondo me va trattata bene.

Ora, l'"e/o" ha una sua logica vagamente burocratica: se si vuole in qualche modo precisare che il valore della particella "o" non è disgiuntivo, ma schiettamente inclusivo, si usa questa benedetta forma ridondante. E vabbè: a me non piace, ma, ripeto, è pura idiosincrasia. Però, perdinci, che almeno sia usata per bene... Nella prima parte del comunicato radio di cui sopra, il famigerato "e/o" ci può stare (anche se non mi pare così indispensabile): è immaginabile infatti che ci siano luoghi in Italia dove si fanno solo ballottaggi provinciali, altri dove si fanno solo quelli comunali, e magari anche posti dove si fanno entrambi. Ma nella seconda parte dello spot, quel secondo "e/o" che diamine ci azzecca? Un candidato sarà eletto sindaco, un altro sarà eletto presidente della provincia, ma quando mai avremo un candidato che sarà eletto "sindaco E presidente della provincia"?

Sono un po' trombone e pignolo, vero? Lo so, lo so... ma che ci posso fare? È la vecchiaia, mi sa...

Ci scrive Marina Geymonat.
--- Io sono solidale con Piero Fabbri sull'uso scorretto e/o inutile e/o inadatto e/o inappropriato della... cosa è, una congiunzione, una disgiunzione, una particella? Boh, in ogni caso, sull'uso dell'oggetto in questione! ---


Sabba

[A proposito dell'etimologia di "sabba": dal francese antico sabbat, che è dal latino sabbatum 'sabato', in segno spregiativo e perché secondo alcune tradizioni si svolgeva la notte del sabato.]
Altro giorno buono per tali convegni si narra che fosse il mercoledì: e siccome per arrivare in tempo le streghe e i demoni si mettevano in viaggio i giorni prima e veniva considerato più prudente non viaggiare quando le strade erano così malamente frequentate, si riteneva saggio non viaggiare di martedì e venerdì. Cosa che dovrebbe essere all'origine del detto "Né di venere né di marte: non si arriva, non si parte, non si dà inizio all'arte".


Artide e Orse

[A proposito di "settentrione", che deriva etimologicamente da 'bue da lavoro', nome con cui si indicavano le sette stelle dell'Orsa Minore] ho il sospetto (e il mio Cortellazzo-Zolli sospetta insieme a me) che i "sette buoi" del Settentrione siano in realtà le sette stelle dell'Orsa Maggiore, e non quelle dell'Orsa Minore. Questo perché, pur essendo effettivamente l'Orsa Minore più settentrionale (contiene infatti la Polare) rispetto alla sorella maggiore, ha le stelle assai meno visibili e caratteristiche nel cielo boreale. Insomma, se uno alza gli occhi al cielo, l'Orsa Maggiore la vede subito, per prima, e da lì ricostruisce la mappa celeste. E, essendo una costellazione circumpolare, visibile tutto l'anno, dà comunque un'ottima approssimazione del "nord".
La Minore dà un'approssimazione migliore, ma è quasi impossibile trovare l'Orsa Minore senza aver trovato prima la Maggiore e averla usata come "base di ricerca" (c'è un noto metodo che consente di trovare la stella polare, e quindi l'orsa minore, ripetendo per cinque volte la distanza tra le due ultime ruote del gran carro, nella direzione che le unisce...).
E a questo punto, la domanda, che non mi ricordo più: ma "artico" e "antartico", che vengono appunto da "orso", li avevamo già messi come animali di parole?


Come quando fuori piove

Sequenza oltremodo famosa, usata anche per stabilire la gerarchia dei colori del poker, ma che funziona malissimo per il bridge. In quel gioco picche è il seme di segno maggiore, secondo solo al "senza atout", ovvero al gioco senza briscola. In ordine crescente di importanza, nel bridge la sequenza è fiori-quadri-cuori-picche-(senza atout). In mancanza di un preconfezionato Come Quando Fuori Piove, uno sparuto drappello di apprendisti bridgisti autodidatti si inventò uno slogan da pittore: "Fa Quadri Col Pennello o Senza".

Ci scrive il nostro amico Francesco Caiazzo.
--- Solo due righe per intromettermi nell'argomento e riferire una frase che ho appreso da un amico che si destreggia nella magica arte del Bridge. Per memorizzare l'importanza dei semi in tale gioco, infatti, sulla falsa riga della più volte (da voi) richiamata frase "Come Quando Fuori Piove", gli amanti del Bridge usano la seguente: "Prendi Cara Questi Fiori". ---


Pettinare le bambole

Portare vasi a Samo, e portare acqua in Arno sono gran bei classici. Sono rimasto stupito, durante una riunione in questo grigio agglomerato lombardo d'uffici similbancari, sentire dire, per esprimere il medesimo concetto di inutilità, affermare che - se avessimo fatto la tal cosa - allora sarebbe stato come "pettinare le bambole". Credo sia un perversione più recente che regionale, comunque...

Ci scrive a riguardo Nando Tomassoni.
--- Nello spoletino "pettinare le bambole" ha un altro significato. Nel giusto presupposto che "pettinare le bambole" sia cosa lunga e delicata, si usa come risposta a qualcuno che si meraviglia che un lavoro sia stato fatto bene e alla svelta. Ai miei complimenti, in tintoria, hanno risposto: "Eh, signor mio, qui non stiamo mica a pettinare le bambole!". Tanto dovevo alla Parolata, e subito. Io non sto mica  a "pettinare le bambole!" ---


Asso

Orpolà. Sai che se ha ragione il mio vecchio libro delle medie (antologia? grammatica? boh...), questi modi di dire non hanno in realtà niente a che vedere con la parola "asso"? Poi, insomma... alla fin fine, quella parola la contengono quindi dire che non hanno niente a che vederci è ovviamente una stupidaggine, ma il fatto è che l'etimologia della locuzione sembra essere del tutto diversa. Forse è solo una "leggenda etimologica", e credo tu la sappia già, ma comunque...
Allora, Dedalo costruisce il Labirinto per rinchiuderci quella schifezza del Minotauro. Ci perde un figlio, Icaro, e la storia genera essa stessa modi di dire, immagini classiche e nomi di mari. Teseo vuole ammazzare il Minotauro, ma la cosa non è facile, proprio perchè nel Labirinto si entra come niente, ma uscirne è tutto un altro paio di maniche (con o senza assi all'interno). Però Teseo è un figaccione, e appena arriva a Creta viene visto da Arianna, che cade tosto in deliquio e se ne innamora perdutamente. Arianna corre dal vecchio Dedalo, chiede come si può fare ad uscire dal labirinto, e il vecchio architetto sfigliato e sfigato le suggerisce il celeberrimo trucchetto del filo (perchè non lo ha usato lui a suo tempo, invece di fare quella roba complicata delle ali di penne piume e cera? Beh, lui e Icaro erano tutti e due dentro il labirinto, qui invece Arianna può tenere un capo del filo restando fuori.
Arianna compra al supermercato un gomitolone, ne dà un capo a Teseo e lo spedisce a fare i conti col Minotauro. Teseo ammazza il mostriciattolo mezzo uomo e mezzo toro, riavvolge il gomitolo, trova l'uscita e vicino l'uscita Arianna tutta rossa e discinta, le salta addosso e la mette incinta di Demofonte e Stafilo. Beh, no, questo forse non lo fa sulle porte del labirinto, ma solo poi, con più calma. Però resta il fatto che Teseo è ateniese, e vuole tornare ad Atene. Si imbarca allora diretto al Pireo deciso a non più tornare, e Arianna innamoratissima si imbarca con lui. Ma i marinai fanno promesse da marinaio, e il nostro s'era già stufato della cretese aggomitolata. Così, durante uno scalo tecnico all'isola di Nasso, giusto per cambiare l'acqua alle anfore, Teseo lascia Arianna addormentata sull'isola e fugge all'inglese. O forse all'ateniese. Comunque, quel che è certo è che Teseo Arianna la pianta. La pianta? E dove la pianta? Ma l'abbiamo già detto, no? La pianta in Nasso. E da "piantare in Nasso" a "piantare in asso" il (p)asso è breve.


Schernita

Posso concedere che sia errore ormai comune, ma uffa, sembra quasi che non ci sia più giornalista in grado di NON farlo, quest'errore.
Ultimo esempio, Repubblica di oggi: pagine dello sport, articolo di colore su Italia-Francia. Per chi tiferà mai Carla Bruni, italica presidentessa francese? Sembra che un franco-giornalista le abbia rivolto la fatal domanda, e il cronista di Repubblica scrive che ella, prima di rispondere, "si è schernita".
Cioè si è presa per il culo da sola.
Ho persino pensato che potesse essere colpa del correttore automatico di Word, ma direi che è impossibile: il mio accetta senza protestare sia "schernita" sia "schermita" (ma si arrabbia con "scherpita"), quindi mi sembra improbabile... quel che è peggio è che per davvero sarà ormai la terza o quarta volta che incontro il leggiadro obbrobrio.
Mah. Che fai, spezzi lancia grondante sdegno grammaticale?


Sia sia sia

Allora, qualcuno conosce il numero del Guinness dei Primati?
Non posso esserne sicuro, ma credo che potremmo essere testimoni di un record. Infatti, quando il nostro prode paroliere dice: "Insomma, si può dire sia sia... sia sia sia... che, con una preferenza per la prima forma" fa quasi certamente record con quel triplice "sia sia sia", perchè non credo esistano altri casi in cui una parola italiana triplicemente ripetuta abbia un vero senso sintattico, com'è in questo caso. Se poi si considera, a meno di una singola serie di puntini di sospensione, che la tripletta è in realtà parte di un quintetto "sia sia ... sia sia sia", direi che dubbi sul primato non possono essercene.
E il fatto che il Cinato l'abbia fatto certamente apposta nulla toglie alla cosa.


Inutilità

Portare vasi a Samo
e
Portare acqua in Arno
Fare una cosa inutile.

... e questi sono gran bei classici. sono rimasto invece stupito, durante una riunione in questo grigio agglomerato lombardo d'uffici similbancari, sentire dire, per esprimere il medesimo concetto di inutilità, affermare che - se avessimo fatto la tal cosa - allora sarebbe stato come "pettinare le bambole". Credo sia un perversione più recente che regionale, comunque...


John Cage

--- Piero ci scrive a proposito del (piccolo) saggio sulla musica, in cui veniva citato il brano 4'33" di John Cage. ---

Lo sai, vero, perché proprio 4'33"? [...] 4'33" [...] è il tempo in cui l'orchestra resta religiosamente in silenzio dopo aver ricevuto il via dal maestro. E 4 minuti e 33 secondi significa 273 secondi; e -273 °C è la temperatura dello zero assoluto. Il pezzo, insomma, è lo zero assoluto musicale.


Unghia del leone

--- Una citazione a proposito del detto "riconoscere l'unghia del leone". ---

Rischio d'apparire un po' trombone, ma gli è che non sapevo fosse diventato un vero modo di dire. Ne riconosco l'origine, perché è una delle citazioni più famose della storia della matematica.
Attorno al 1700, i grandi matematici si sfidavano lanciandosi vicendevolmente dei problemi difficili da risolvere. Non erano dei veri e propri duelli a colpi d'equazioni come quello tra Cardano e Tartaglia, ma insomma... Un bel dì, un Bernoulli (credo Johann, ma non ne sono sicuro, erano troppi, in quella famiglia) sottopose alla comunità matematica il problema della brachistocrona, ovvero della "curva più veloce". Insomma, detta un po' grossolanamente, presi due punti qualunque A e B sulla lavagna, immaginiamo di unirli con un binario e di far scorrere sul binario una pallina che, sottoposta alla cara vecchia forza di gravità , andrà  dal punto più alto (A) a quello più basso (B).
Beh, Bernoulli in pratica chiedeva di quale forma doveva essere il binario (che curva dovesse essere, insomma) per far sì che il tempo di percorrenza da A a B fosse minimo. Lui aveva scoperto che il risultato era una cicloide, e voleva vedere se anche gli altri capoccioni dell'epoca fossero in grado di arrivarci.
Nel giro di poco gli arrivò una splendida soluzione, anonima. Bernoulli riconobbe i tratti di Newton e disse, appunto: "riconosco il leone dall'artiglio", "ex ungula leo", o qualcosa del genere, non ricordo esattamente la citazione latina.


Errori sulla newsletter

Il nostro Piero Fabbri preferito coglie al balzo lo spunto di ben due errori da parte del curatore in un numero della newsletter. Di seguito il pezzo incriminato seguito dalle citazioni del Fabbri.

--- Quando la preposizione "su" è applicata a un pronome personale pùo essere scelto se aggiungere oppure omettere il "di". Sono entrambe corrette le frasi tra noi possiamo dircelo, oppure tra di noi possiamo dircelo. ---

È cosa sana e bella trovare una utile spiegazione sulle preposizioni (sto imparando cose incredibili), ma è quasi più intrigante scoprire quale possa essere la recondita psicologia delle tue dita. In questa breve frase qua sopra riportata, è più significativo il fatto che parli della preposizione "su" e che poi fai esempi con la preposizione "tra", oppure è più caratteristico  quello splendido accento a centro parola in "pùo"?
Ci si potrebbe scrivere un trattato sopra: per l'accento che retrocede, si potrebbe fare una lunga disquisizione sul fenotipo e sul genotipo: in fondo, con buona pace di Darwin e di Dawkins, in questo caso è il fenotipo (ovvero l'accento stesso) che pare dotato di movimento, e decide di marcare l'errore tipografico. Insomma, sembra una banale anticipazione del "dito dominante" sulla tastiera, come quando io scrivo tutti gli avverbi terminanti in "mnete" anziché in "mente". Sembrerebbe, ma non può essere; perché l'anticipazione dell'accento è cosa diversa, è decisione dei "geni della tipografica", dei veri genotipi, perché per poter anticipare l'accento devi aver scelto di premere due tasti totalemnete [sic] diversi da quelli previsti, ovvero "ù" e "o", che sono collocati tutto sommato in spazi ben diversi – sulla tastiera – dei tasti "u" e "ò". Vedi come la mente domina le dita, persino nelle perversioni dell'errore? Vedi come riesce ad essere articolato e complesso, e con quanti colpevoli, anche un banalissimo spostamento d'accento?
Per lo scambio di preposizioni, invece, è tutto molto più semplice: il tuo freudiano super-Io ha proibito l'inevitabile esempio con la preposizione "su", e ha deviato in extremis su "tra", per banali questioni di etica. Il fatto è che "tra di noi" è una banale e innocente locuzione, mentre "su di noi" è totalmente svergognata dall'omonima canzone di Pupo.
A nome anche degli altri lettori, ringrazia il tuo super-Io.

[NdC] Terminato il Fabbri citante vorrei solo puntualizzare che utilizzo una tastiera di tipo internazionale, quindi senza i tasti delle lettere accentate.


Catecumeno

Non c'entra niente, ma il participio presente passivo femminile greco (fiuu.... quattro aggettivi!) mi ha ricordato che, ai bei tempi della scuola, ero rimasto molto sorpreso dal fatto che uno dei nomi femminili che mi piacevano di meno avesse un così bel significato: Filomena, "colei che è amata".


Bello come una donna

Mi ricorda un altro errore di dire, che è stato persino usato (consapevolmente) come titolo d'una trasmissione televisiva di qualche anno fa, sulle opere liriche.
In una opera (non mi ricordo quale) un'aria comincia con la frase "L'amore ond'ardo", nel senso naturale di "L'amore, a causa del quale io ardo (di passione)...". Solo che mentre un tenore canta è dura capire bene le parole, e il pubblico ha sempre capito "L'amore è un dardo", ed è con questo titolo che l'aria è più nota.
Più drammatica, a mio modesto parere, è invece la situazione di una delle citazioni dantesche più ripetute: capita spesso che, quando si fa sera, qualcuno se ne esca su a dire " È l'ora che volge al desìo", come se "volgere al desìo" significasse appunto farsi scuro, tramonto del sole, o qualcosa del genere. Il verso successivo viene poi di solito aggiunto come "e ai naviganti intenerisce il core", che sembra del tutto normale (anche i naviganti possono lasciarsi intenerire, talvolta).
In realtà, desìo significa come sempre solo "desiderio", e "volgere al desiderio", per un'ora, è cosa che continua a non capirsi cosa significhi. Se uno si prende la briga di sfogliare la Commedia, però, il mistero si risolve. Le due frasi dantesche non sono quelle che di solito vengono citate, ma sono diverse: rompendo i versi e affidandosi alla punteggiatura, si vede che il Vate dice:
1) È l'ora che volge il desìo ai naviganti,
2) e intenerisce il core.
E allora la cosa si capisce: la seconda frase resta chiara, anche se più generale (intenerisce il core a tutti, non solo ai naviganti: poi, ovvio, loro sono citati nel verso precedente e magari è proprio al loro "core" che Dante pensa principalmente). Ma è la prima che recupera tutto il suo senso letterale (mantenendo intatto quello poetico): innanzitutto il desiò e complemento oggetto e non di termine. Poi, bisogna consideare che i naviganti di solito guardano a prua, verso la destinazione, perchè è lì che vogliono arrivare; ma quando cala il sole vengono presi dalla nostalgia (che non a caso significa "dolore del ritorno"), si girano verso poppa e pensano a casa. In questo senso, quell'ora fatidica "volge il desìo ai naviganti", nel senso che "gira il desiderio dei navigatori", spostandolo dalla prua, dalla destinazione del viaggio, e dirigendolo verso la poppa, cioè verso la casa dalla quale si stanno allontanando.


Quarantino

Da quando va di moda la narrativa sicula (esplicitamente l'opera omnia di Camilleri), non è passabile sotto silenzio che "quarantino" (ma anche trintino, cinquantino, sissantino, sittantino - con le opportune desinenze aggettivali, anche plurali e femminili) sta per "quarantenne". Anche se il significato è un po' diverso, visto che "quarantenne", in italiano sta proprio per "colui che ha quarant'anni" (ed è pertanto cosa diversa anche solo da "quarantunenne"), mentre il camilleresco "quarantino" (e, mutatis mutandis, tutti gli altri aggettivi destinati alla misurazione dell'età) sta più esplicitamente per il generico "sulla quarantina".


Brent [pronuncia brEnt]

Voce inglese, di etimo incerto.
Sostantivo maschile invariante.
Petrolio greggio.

Allora, il brent.
Ce ne sono, di cose da dire, sul brent. Tanto per cominciare, a me risulta che non significhi esattamente greggio, ma bensì un tipo particolare di greggio, quello del Mare del Nord. Petrolio europeo, insomma, la cui quotazione fa un po' da sistema riferimento anche per gli altri petroli, in funzione della loro qualità. Come dire che se il brent sale da 50 a 55 dollari il barile, allora anche gli altri petroli (iracheni, venezuelani, sauditi) sanno più o meno come varierà il loro prezzo.
Detto questo, l'etimologia della parola è del tutto evidente: basta un dizionario enciclopedico di inglese per scoprire che brent significa papera. Beh, insomma, quasi. In realtà è un'anatra, e molto bella, anche. Con la testa verde e decorata da belle strisce bianche; a me sembra molto simile al nostro Germano Reale. E allora il legame col petrolio è chiaro, no?
No, lo so che non è ancora chiaro. Però il legame c'è davvero. Tutto risale a quando la Esso inglese andava in giro per il Mare del Nord alla ricerca di giacimenti petroliferi. Quando trovò il primo, si pose il problema di dargli un nome: e il nome prescelto fu Auk. L'auk è un tipo particolare di pinguino, dal becco molto caratteristico. È stupefacente che dei rozzi ingegneri petroliferi che passano il tempo su piattaforme gelide abbiano trovato un nome tanto poetico, vero? Però così fu, e la cosa era solo all'inizio.
L'idea di chiamare i giacimenti con nomi di uccelli acquatici prese subito piede, e approfittando del fatto che auk cominciava con A, prima lettera dell'alfabeto, decisero che i successivi avrebbero avuto sempre il nome di uccelli d'acqua, con iniziale acconcia e rispettare l'ordine alfabetico. È chiaro allora che il Brent fu il secondo giacimento scoperto; ma non l'ultimo: ad esso fecero seguito il Cormorant (cormorano), il Dunlin (piviere), l'Egret (un tipo di airone), poi il Fulmar, il Gannet, e così via. Di tutti questi giacimenti dal nome d'uccello, il Brent è sempre stato quello con il greggio di migliore qualità, e il nome di quel giacimento è passato poi ad indicare proprio il tipo di petrolio.
E questa è l'etimologia che conosco io. Quasi. In realtà, la parte migliore della storia, quella che la rende davvero memorabile è ancora un'altra. È una versione solo ufficiosa, ma secondo me è assolutamente credibile, anzi vera. Si mormora che i rudi ingegneri petroliferi della Esso, in realtà, non avessero alcun intento poetico, all'inizio: loro si sarebbero contentati come al solito d'una sigla. E come può essere fatta una sigla per un primo giacimento inglese? Ovvio, con qualcosa che indichi "primo" e qualcosa che indichi "inglese". Ovvero, banalmente, Giacimento A-UK. Il povero pinguino auk non c'entra per niente: per quel che riguardava i tecnici, A-UK andava benissimo per il primo, e B-UK sarebbe andato altrettanto bene per il secondo, C-UK per il terzo e così via.
Ma un solerte funzionario si accorse dell'incombente tragedia. Per la barba della regina! Come sarebbe andata a finire la cosa, poi, al momento in cui sarebbe stato trovato il sesto giacimento? Good grief, non si può certo chiamare un impianto F-UK, che suona identico a fuck, anzi, è proprio come scrivono fuck i ragazzacci che vanno male a scuola. Bisognava subito cambiare codifica, e qualche animo geniale e poetico si accorse che il già battezzato A-UK poteva essere inteso anche come Auk, pinguino, e da lì scaturisce poi tutta la storia dei nomi presi dagli uccelli acquatici.

Ah, non può essere falsa questa storia. Troppo buffa per non essere vera. Secondo me, l'etimo è tutt'altro che incerto, sia per il giacimento che per quel tipo di greggio.


Spider [pronuncia 'spaider]

Voce inglese, propriamente 'ragno'. Il significato italiano non esiste nell'inglese. In inglese spider-wheel ('ruota a ragno'), da cui probabilmente deriva il significato italiano, era il nome dato alle ruote munite di raggi in uso sulle auto sportive.

Bello. Io avevo sentito un'altra teoria, sulla cui autorevolezza però non sono in grado di giudicare: avevo sentito dire che si trattasse di una contaminazione di "speeder", nel senso di "cosa veloce", che va pronunciata "spider", sovracorretta poi da qualche italico che credeva si dovesse invece scrivere "spider" e pronunciare "spaider". Di queste correzioni scrittura/pronuncia ce ne sono diversi (l'ultimo che ricordo è quello della squadra dei Chicago Bulls (Tori), che si pronuncia "balls", ma qualcuno credendo che "Balls" fosse il nome scritto, passava a pronunciare "bolls" (palle). Oppure quando uscirono i primi jeans "Levi's", c'era sempre chi credeva di essere più in gamba degli altri, presupponendo che i jeans suddetti fossero in realtà d'una pseudomarca "Lewis" pronunciata male da qualcuno: e allora finiva per chiamarli snobisticamente "liuis".
Qualcosa di simile, ma non so quanto, dovrebbe essere accaduto anche coi Beatles, spesso chiamati scarafaggi, anche se scarafaggio in realtà è "beetle". Però lì ci hanno probabilmente marciato anche John Lennon e soci, volendo forse creare un gioco di parole tra "beetle" e "beat", non lo so.


Portar nottole ad Atene

Fare una cosa inutile, poichè ad Atene ci sono proverbialmente molte nottole.

Peter: "Eccomi qua!"
Mary Jane: "Bene arrivato, Pete! Ma sei da solo, senza dama accompagnatrice?"
Peter: "Venire con una donna ad un festa dove ci sei già tu è come presentarsi in utilitaria alla General Motors!"
(Da un albo dell'Uomo Ragno, circa 1975)

Dai notturni proverbi greci alle tecniche fumettistiche americane del XX secolo, il mondo (e i modi di dire) non cambiano.


Quantile

Derivato di quanto, dal tedesco Quantum.
Sostantivo maschile.
(statistica) Ciascuno dei valori che ripartiscono una distribuzione statistica in gruppi contenenti la stessa percentuale fissa di dati.

Non credo sia molto utile, ma a puro titolo informativo vi annuncio di aver più volte trovato il "quantile" (forma ovviamente indeterminata, che parla di "quantum" generico) nei suoi dialetti determinati: decile, sestile ecc.
Un manifestino sindacale appeso nella bacheca di una nota società bancaria milanese esponeva in bella vista la frase "[...] per tutti i ventili di reddito [...]" seguita da una tabellina con molte righe. Ci sono volute un paio di sedute alla macchinetta del caffè (non a caso piazzata proprio di fronte alla summenzionata bacheca) e un ripetuto, accurato conteggio della righe della tabellina per appurare che le righe scaglionavano il reddito effettivamente in venti intervalli. Intervalli che, forti della loro consistenza numerica, avevano indotto l'ignoto autore all'utilizzo del misterioso "ventile".


Bibliografia

--- Piero Fabbri ci scrive relativamente alle citazioni bibliografiche, argomento di un "appunto" di qualche tempo fa (quando gli autori sono più di tre, la citazione viene fatta citando unicamente il primo con l'aggiunta della formula "(et al.)", che corrisponde al latino "et alii", cioè "e altri"). ---

Già. Certe volte, però, se si è in due si può tendere a diventare tre, specie se i tre nomi degli autori suonano bene insieme. Una delle più famose teorie stava per essere pubblicata dai fisici George Gamow e il suo collega Alpher: l'assonanza con le prime lettere dell'alfabeto greco e il fatto che uno dei maggiori cosmologi del tempo si chiamasse Hans Bethe indusse i nostri eroi a contattarlo e a proporgli di diventare coautore. Bethe lesse il documento, approvò, aiutò a mettere a posto alcuni formalismi, e il documento venne pubblicato con i nomi Alpher-Bethe-Gamow. Siccome è una teoria molto nota e importante, si fa riferimento ad essa come la "Teoria Alfabetica" (o anche semplicemente come "Alfa Beta Gamma"), ancora oggi. Però non furono tutte rose e fiori: all'inizio sembrava ci fossero dei problemi grossi, al punto che Bethe confessò di aver pensato per un istante di cambiare il suo nome in Zacharias.


Incinta si scrive tuttattaccato.

(tuttattaccato invece no)
[...] "incinta"è una parola bella strana, e anche io mi sono trovato talvolta a scrivere "in cinta" tut tosta cca to, perchè credevo che fosse una maniera per dire "in procinto", procinto che poi magari diventava femmina, procinta, e da lì magari diventava cinta, indi... "in cinta". Datosi che però sicuro non ero delle mie belle etimologie supposte, mi sono informato, e ho scoperto una delle più belle (secondo me, e siamo ampiamente nell'opinabile) etimologie dell'italo-latino linguaggio.
E allora, ecco che "incinta" mi risulta essere pari pari il contrario di "cinta", proprio come incredibile è il contrario di credibile, iniquo il contraio di equo e infingardo il contrario di fingardo. E "cinta" gli è aggettivo, non sostantivo ('nzomma, non si parla aqui della cintura atta a tener su le braghe); aggettivo, dicevasi, come nella frasetta "Carcassonne è bella cittadina franciosa cinta di mura". Ergo, quando io mi metto una cintura, posso ben dire d'essere cinto d'una cintura. Ecco, qui casca l'asino: narrano le antiche croniche e puranco le historie che le gentili matrone romane viaggiassero normalmente elegantemente vestite di tuniche (o toghe? No, mi sa di no, tuniche, tuniche...) con grazioso nastro o fettuccia di cuoio a mo' di cintura, perchè anche a quei tempi vedere il bell'alternarsi pieno-vuoto-pieno disegnato dalle piacevoli montagne russe di tette-vita-fianchi delle fanciulle rallegrava la vista ai senatori e ai centurioni dell'Urbe.
Sennonchè, quando le suddette fanciulle addiventavano legittimamente pregne, erano ben contente della cosa, anche se un filino preoccupate visto che lasciare la buccia in sala parto, a quei tempi, non era poi del tutto improbabile. Senza parlare della storiella della Rupe Tarpea [...] e le diecimila sfighe sempre in agguato quando si tratta di trasformare i pranzi e le cene di nove mesi in un ragazzino nuovo di pacca. E allora che facevano, le matron-fanciulle? Serie serie, non appena realizzavano che le mestruazioni non per caso non s'erano presentate, se n'andavano al tempio di Giunone (credo: ma non sono certissimo fosse proprio Iuno), e, ritualmente, si toglievano la cintura. Insomma, trasformavano la tunica cinturata in una tunica premaman, perchè hai voglia a farci buchi nuovi se alla fine devi scodellare un legionario.
Eppoi, insomma, la cosa doveva rendersi pubblica. Lasciavano la cintura lì, nel tempio di Iuno, e la pregavano di non far loro scherzi antipatici da lì ai prossimi nove mesi. Poi, tutte allegre, se ne uscivano dal tempio così come se ne erano entrate. Anzi no, per Giove. Erano entrate cinte di cintura, e ne uscivano trionfalmente "incinte".
Scusate il pipponcello, ma 'sta storia m'è sempre piaciuta...


Tee [pronuncia ti]

Voce inglese, di etimo sconosciuto.
Sostantivo maschile invariante.
Nel gioco del golf, piccolo supporto sul quale viene posata la pallina all'inizio del gioco di ogni buca; anche, la piazzola dove tale supporto è collocato.

Ma davvero è di etimo sconosciuto? Mi sembra impossibile...
Le guarnizioni di forma circolare (caso Shuttle insegna) le chiamano o-rings per evidente somiglianza con la lettera "O"; i due semicerchi che costituiscono la parte esterna dei sincrotroni vengono brutalmente chiamati "dees" per spudorata somiglianza con la lettera "D" maiuscola; davo per scontato che il tee prendesse il nome dal fatto che (essendo di fatto un chiodone di plastica), se lo si vede di profilo ha la perfetta forma della lettera "T".
Vabbè che io non gioco a golf, ma non c'è qualche diciottobuchista tra i lettori della Parolata che possa confermare?

Risponde un anonimo diciottobuchista.
[...] devo deludere l'ottimo Piero Fabbri: in origine si usava un mucchietto di sabbia, che non può assomigliare a una T...
TEE: in golf, 1721, back-formation from teaz (1673), taken as a plural; a Scottish word of uncertain origin. The original form was a little heap of sand. The verb meaning "place a ball on a golf tee" is recorded from 1673; fig. sense of "to make ready" (usually with up) is recorded from 1938.

Ancora Piero Fabbri.
[...] la mia gentile signora [...] qualche tempo fa mi regalò il Webster, ciclopico dizionario (forse è il volume più voluminoso che ho in libreria), che, seppur statunitense e non britannico, è comunque utile per la storia delle parole inglesi. Ieri sera ho fatto la fatica (fisica) di tirarlo giù dallo scaffale, in un ultimo tentativo di salvare la mia "etimologia intuitiva" della parola "tee".
Beh, non ho avuto questa soddisfazione. Diciamo che, tirata proprio al massimo, il meglio che posso dire è di aver avuto una pacca sulla spalla per le buone intenzioni, niente di più. Il sacro Webster infatti conferma per filo e per segno l'etimologia che hai riportato precedentemente, citando l'origine scozzese e antica della parola "teaz" (vado a memoria), il periodo intorno al milleseicento e rotti, e pure il fatto del mucchietto di sabbia.
La "pacca sulla spalla" che il dizionarione mi concede è quando poi parla di una possibile interferenza (dovuta ad soniglianza sia di suono che di significato, con inevitabile successiva confluenza delle parole), dell'originale "teaz" con "tee" nel senso di "T", ovvero con la forma della lettera T; però, anche in questa tiepida soddisfazione, afferma (e credo con ragione, oltre che con
autorevolezza) che la forma a "T" non si riferisce al chiodino di plastica (che poi, almeno in origine, sembra fosse esplicitamente di forma conica, più che a forma di chiodo) ma al segno tracciato per terra col gesso in molti tipi di gare per segnare il punto di partenza. Un po' come i segni che ci sono negli studi televisi per indicare dove deve stare il povero cristo inquadrato dalla telecamera. Quegli sport popolari e quei segni per terra potrebbero aver veicolato il "tee/T" nel significato di "punto di partenza del gioco", e trasmesso il sema anche al golf, che già per conto suo aveva un "punto di partenza" indicato dal vocabolo scozzese.
Insomma, spingendo a forza e arrampicandosi sui vetri, si può forse far comparire la lettera T e la sua forma dentro il tee; ma comunque non nella forma del supporto della pallina da golf.

 

 

Ultimo aggiornamento: 30 giugno 2013.

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