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Giovedì briscola

Capitolo quattro, di Piero Fabbri

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- Sia stramaledetto il tre di spade, il dieci di bastoni, tutta la briscola e soprattutto quel dannato salotto incartapecorito - gli occhi azzurri di Adele sono molto più freddi e irritati delle maledizioni che le escono dalla gola. Svuota con furia i cassetti d'un comò finto-antico e certamente anche finto-moderno, visto che non si riesce a capire quale periodo di perversione industriale sia riuscito a produrlo: Anni Cinquanta-Sessanta, o magari Sessanta-Settanta, ma di certo Anni Abominevoli, per la produzione di comò. I cassetti cigolano, non si aprono quasi, ma la furia di Adele riesce ad aver ragione di quel mobile impresentabile perfino nei recessi più arditi del Balôn.
- «...non avrebbe dovuto giocarlo, signorina!», dice l'imbecille. Se solo immaginasse quanto me ne frega, del suo fottuto re di bastoni finito bastonato. Se non fosse che devo assolutamente recitare la parte ancora per qualche settimana, io... ma cristo, Gerry! Vuoi mollare per dieci secondi quella dannata playstation e venire a darmi una mano, per la miseria?
Dal tinello illuminato da un neon triste e rotondo si sente arrivare un ciabattare tardo-adolescenziale. Si interrompono gli sfrigoli elettronici e le esplosioni meccaniche che fino a pochi istanti prima riempivano tutti gli echi dei sessanta metri quadri dell'appartamento, e alla fine una faccia da ragazzino appoggiata sul metroenovanta d'un corpo da uomo si affaccia sull'uscio.
- Cheppalle, sorella. Che ti serve adesso, si può sapere?
- Mi servirebbe che ti decidessi a renderti conto del casino nel quale ci troviamo, dannazione. Siamo orfani da quattro giorni, non abbiamo un centesimo e non credo che verrà nessuno a regalarci qualche migliaio di euro per tirare avanti. E anche se hai solo diciassette anni, dovresti fare lo sforzo di entrare un po' di più nell'ottica giusta, fratellino. E l'ottica giusta è quella del sono-un-prossimo-morto-di-fame, e non quella del sarò-un-brillante-campione-di videogames, è chiaro?
Gerardo ha ancora in mano il telecomando della console, lo guarda tenendo gli occhi bassi. Non ha niente da rispondere, come al solito, e si limita ad appoggiarsi allo stipite. Annoiato, o preoccupato, o disperato: difficile da capire.
- Io devo continuare a frequentare quelle cariatidi, lo capisci? - riprende Adele, con un tono meno aggressivo - e per farlo devo cercare di capire un po' quello stupido gioco di carte. Non faccio che sbagliare, stasera mi sono resa conto benissimo che mi hanno fatto vincere immeritatamente almeno tre partite, ma ho paura che prima o poi mi daranno il benservito, con tanti saluti alla memoria di papà. E invece io devo assolutamente ottenere che... - interruzione, sospiro, un accenno di singhiozzo; poi di nuovo verso il fratello, occhi negli occhi - ...non importa, adesso. Ne parleremo in un altro momento, di quel che devo fare. Adesso, quello che conta è capire qualcosa della briscola. E mi sembra di ricordare che papà avesse un paio di vecchi manuali, in questo cassetto, manuali che spiegavano un po' i trucchi di base, e... ma cos'è ‘sta roba?

Tre quaderni neri, vecchi, con i bordi delle pagine colorati di rosso. Tenuti insieme da un nastro forse una volta azzurro, ma ormai impolverato, vecchio, grigio e scolorito. Adele li tira fuori con delicatezza; non sono certo i manuali sulla briscola, ma hanno l'aria importante. Da dieci anni non apriva quei cassetti: da quando era morta sua madre, né lei né Gerardo avevano più quasi messo piede nella stanza. Era sempre solo suo padre a metterla in ordine, a rifare il letto, a spolverarla. Non c'era certo nessun divieto esplicito, ma un patto tacito e sempre rispettato. La stanza dei genitori restava l'inviolabile stanza dei genitori, anche se la mamma non c'era più. E anche stasera non era stato facile, per Adele, varcare la soglia, aprire i cassetti, frugare. Era solo grazie al tre di spade sbagliato, solo per il terrore del sentirsi sola al mondo, con suo fratello da proteggere, solo per la paura e il terrore che si trovava adesso inginocchiata sul vecchio parquet, sfogliando quaderni vecchi di decenni. Si ritrovò a leggere prima ancora di rendersi bene conto di cosa fossero quelle pagine.

Lo avevi fatto apposta, quel giorno, Geraldine? Avevi una cattleya nella scollatura, non poteva essere un caso. Il giorno prima avevi cercato sugli scaffali tutte le vecchie edizioni della Recherche, ridendo alla domanda di quel becero di Alfio che ti chiedeva se quel Proust che tanto cercavi fosse un tuo parente. T'ho sorriso, e sussurrato piano, lontano dalle sue orecchie pelose, che era proprio così che immaginavo Odette: leggera come te, ridente come te, curiosa come te. Solo, molto meno bella. E tu hai riso piano, Geraldine: mi hai squadrato e soppesato, analizzato e valutato, per poi concludere che no, non era così, come me, che immaginavi il tuo Swann. Poi hai riso in francese, sei scappata in francese, abbracciando in francese il tuo conte inamidato, sussurrandogli in francese sconcezze francesi, e stando bene attenta a che io potessi vedere la tua lingua che, veloce, carezzava il suo orecchio. Quanto t'ho odiata, Geraldine. Quanto ho voluto quella lingua.

Cos'era questo, cos'era questa, adesso? Questo quaderno scritto fitto con la calligrafia di suo padre, inchiostro vecchio, neanche nero ma marrone o seppia, o forse solo invecchiato ad arte. Cos'era, un romanzo? Chi era questa Geraldine, se l'unica donna mai nominata da suo padre in tutta la sua vita non era stata altri che Giovanna, sua madre?
- Trovati i manuali? Bene! Torno di là, allora...
Gerardo si volta, torna a guardare il telecomando, e pochi secondo dopo dalla televisione e dal tinello ricominciano i lampi, i boati, le esplosioni virtuali. Adele non fa in tempo a rispondergli che no, non sono i manuali che cercava; del resto ai manuali non pensa neanche più. Ma si ritrova incongruamente a pensare proprio a Gerardo: ricorda che sua madre mal sopportava il suo nome. Nome da vecchio, diceva: poco adatto a un ragazzino che doveva vivere la sua vita nel terzo millennio. Ricorda suo padre, che invece non voleva sentire ragioni: Gerardo era il nome giusto, per suo figlio, e basta. Rammenta perfino una sottile fitta di gelosia, per tutte quelle ripetute discussioni sul nome del fratello, mentre del suo non si parlava mai. E non si poteva certo dire che Adele fosse un nome comune, moderno come Giulia o aggressivo come Samantha. No, era nato vecchio anche il suo, e anche lei doveva vivere nel terzo millennio, come il fratello. Eppure, niente, neanche uno screzio piccolo piccolo, per colpa del suo Adele. Ma adesso quel Geraldine scritto dentro il quaderno dà una luce del tutto nuovo al nome di suo fratello. Gerardo, Geraldine; fosse esistita davvero, la donna con la cattleya, e avesse davvero messo il fiore come spudorato richiamo alle mani di suo padre, allora l'astio di sua madre verso il nome poteva diventare comprensibile. «Lo avevi fatto apposta, quel giorno, Geraldine?» - Adele rilegge le prime parole del quaderno, si sofferma sul nome. Francese. Femminile. Poi sorride, colpita da un pensiero rivelatore: possibile? Forse sì. Forse sua madre aveva ragione, forse aveva dannatamente ragione, forse avrebbe dovuto essere ancora più gelosa. Nelle nove lettere di Geraldine si ritrovano tutte e cinque le lettere di Adele. Forse è solo un caso, ma forse no. Quanti nomi italiani di donna si possono tirar fuori da quel nome francese? Lo avevi fatto apposta, papà?

- L'hai fatto apposta?
- Cosa?
- La cattleya. Non sono come quell'idiota di Alfio, io. Ho letto Proust, so di Odette e di Swann, e so cosa significasse per loro “fare cattleya”. L'hai messa apposta, quell'orchidea?

La legatoria era deserta. Alfio, aveva detto Geraldine poco prima, doveva correre altrove a fare commissioni, e sarebbe passata a prenderla in meno di un'ora. Geraldine aveva un vestito leggero, lontano dalla moda noiosa del 1974. Somigliava ad un abito da pomeriggio Anni Quaranta, quasi un tailleur, gonna aderente ma lunga fin oltre il ginocchio; giacca attillata, che rimarcava la vita sottile; sotto, una camicetta bianca dai molti bottoni opachi. Ma molti dei molti bottoni erano slacciati, perfino un po' a scapito dell'innata eleganza della mise; e quelli allacciati faticavano a trattenere il lino bianchissimo che contrastava con la pelle, pur bianca, di Geraldine. Nonostante l'evidente prepotenza del seno, non era logico che ci fosse una scollatura così artificiale, in quell'abito. Né era logica la presenza della cattleya: non più logica della appena percettibile separazione delle labbra di lei, gonfie di rossetto: non più naturale della lucidità violenta dei suoi occhi.
- L'hai messa apposta, vero? - ripetè Ernesto, già stanco di sentire solo la sua voce.
Geraldine non risponde, si volta, si allontana tra gli scaffali antichi. Forse per caso, forse per continuare a far parlare la sua immagine, piuttosto che la sua voce. Ernesto la vede camminare lenta, ancheggiando nella giusta misura: quel tanto che basta a far capire che il suo ancheggiare è voluto, pensato, esibito per lui; ma niente affatto vistoso, palese. Sembra quasi accidentale quel ritmico sopravanzare dei fianchi rispetto alla vita, quello della vita rispetto ai seni e alle cosce; che comunque sono poi seguite con solo un impercettibile e femminile ritardo da ginocchia, spalle, polpacci, collo, piedi. Tutto nel tempo d'un tic dei suoi tacchi alti che chiudono la scarpa nera e lucida. Tacchi che scuriscono i talloni, ombra che prosegue poi su, nelle calze con la riga, anch'esse Anni Quaranta, al pari dell'abito; anche esse diritte e perfette come la schiena di lei, baricentro immobile di tutto quel lentissimo oscillare tra gli scaffali. Le righe diritte spariscono sotto l'orlo della gonna, ed Ernesto le immagina risalire - sempre diritte e perfettamente parallele - oltre i polpacci, negli incavi delle ginocchia, e ancora su, su, su. Ma non troppo su, in realtà; dovranno finire, quelle righe nere, prima d'arrivare alla parte alta delle cosce, ai glutei, alla vita e alla schiena. Negli Anni Quaranta non esistevano ancora i collant.
Geraldine è ferma, adesso. Si è voltata, e il suo sguardo divertito lo sorprende mentre lui sta ancora esaminandola proprio come i patrizi romani soppesavano le fanciulle incatenate al mercato degli schiavi. Dopo Proust e le orchidee, dietro il romanzo e la passione letteraria, si ritrovava sempre l'elementare e brutale valutazione della rotondità delle tette, della carnosità dei glutei, dell'elasticità di un arco di schiena, della consistenza dei capelli e della pelle. Ernesto ha narici allargate e roventi, Ernesto è ancorato alla vecchia scrivania tarlata, è inchiodato per merito solo delle unghie al bordo del tavolo. Non ha quasi niente altro per resistere alla lenta, montante, ragionevole, pacata determinazione di strapparle ogni ipotesi di abito da dosso.
Geraldine legge le narici e lo sguardo, indugia appena a valutare l'alzarsi e abbassarsi del respiro dell'uomo, e sorride a sé stessa. Si volta di nuovo, ancora due passi lungo il corridoio disegnato dagli scaffali, con lo sguardo in alto a fingere di cercare qualcosa. Un libro, dicono i suoi movimenti bugiardi. Un libro in alto, lassù, dove non arriva – vedi Ernesto che non ci arrivo? - neanche se si allunga sulla punta dei piedi.
- Non è una vecchia edizione del Jean Santeuil, quella lassù, Ernesto?
Ernesto adesso può vederla di profilo, allungata come una statua greca, definita nel controluce come una lap-dancer, fragile come una schiava, insinuante come una meretrice vecchia, priva di malizia come una prostituta bambina, consapevole del suo potere come una femmina. Ernesto muove il primo passo, e pensa che sarà solo una questione di misura, come sempre. Non potrà lasciarsi intimidire troppo dalla sua assoluta bellezza, perché non è adorazione casta e distante che le sta chiedendo. Non potrà, mordendole i lobi a sangue, urlarle subito forte nelle orecchie che non uscirà dal suo negozio prima di essere stata bevuta e morsa, piegata ed esplorata, ferita, rigata, percorsa, abitata da lui. Non ancora, almeno.
Si avvicina lento, mentre si chiede con che forza dovrà stringerle le cosce, carezzarle i capelli, insinuarsi sotto la sua gonna. Con che decisione dovrà lavare e percorrere la sua spina dorsale, quando concedere un sorriso rassicurante, o se invece lasciarla travolta dall'urgenza del suo desiderio.
Un altro passo, e lei già non finge più. Esce dal ruolo, non si allunga più verso l'alto a disegnare con schiena, natiche, collo e cosce l'ossessivo alternarsi dei vuoti e dei pieni: resta ferma, in attesa, appoggiata ai dorsi dei libri. Non ha più niente da dire e da mostrare, non ha problemi di troppo o troppo poco, lei: Ernesto si sta avvicinando ancora, è suo, ormai, non ha bisogno di altro. Forse neppure la cattleya era poi necessaria, a giudicare dalla fretta che gli esce dagli occhi.
Forse non è neanche una carezza, la mano grande che si appoggia piano sul volto di Geraldine. Tutto il suo viso è coperto dal palmo e dalle dita; Ernesto muove la mano lentissimo, lasciando che ruoti tra capelli e occhi, naso e guance, fino quando rischia di smorzasi davvero in una carezza innocente, presentabile, tenera. Solo il pollice indugia un po', sfiora e carezza le sue labbra rosse, si insinua, esplora denti, tocca la lingua, la sente pronta e mobile.
Ancora nessun bacio. Ernesto ha la bocca a mezzo centimetro da quella di Geraldine, adesso, ma non la tocca, si ferma a respirare il suo respiro, sintonizza il ritmo – inspirazione, espirazione, inspirazione – i due ritmi accelerano e rallentano, cercano sincronia e sintonia, ed Ernesto lascia che la prossimità incompleta faccia il suo corso.
E la sente eccitarsi, infatti. Con l'alzarsi e abbassarsi vistoso del seno, con l'affrettarsi rumoroso del respiro, con le labbra che da socchiuse diventano aperte, dalla pelle che, prima bianchissima, si colora di chiazze rosse e profumate, invisibili nella penombra degli scaffali, visibilissime nei suoi occhi di maschio. Non la bacia, ma si abbassa e le morde la gola. Piano , con misura. Quanto basta a non spaventarla, quanto serve ad immobilizzarla. Come una gatta coi gattini, come un leone con la sua femmina. Tutto sta nella misura, vero Geraldine? Non ti farò male, ma sei totalmente mia. La mano destra si infila sotto la gonna, lunga lunga gonna; e poi risale tra le gambe, lunghe, lunghissime gambe. La mano sente carne e seta, e perfino lo spessore diritto e diverso della riga delle calze. Sente le calze finire – no, non ci sono collant, negli Anni Quaranta – e sente cominciare la sua pelle.
Misura? Non c'è più misura. Gli esce roco un verso dalla gola, la sente rispondere con altri suoni incomprensibili, forse primitivi. Si stacca, la guarda negli occhi, occhi lucidi e larghi, labbra tremanti, ma lei non ha più un angolo immoto di pelle. Come lui, del resto. La gira, le spinge il viso contro i dorsi dei libri vecchi e polverosi, le incolla le labbra alla base della nuca. Geraldine non ha resistenza, né opposizione. Lo sente addosso, lo sente spostarla, spogliarla, tenerla, bloccarla. Sente i libri sulla faccia, sente i suoi denti sul collo, non sa far altro che far guizzare la lingua, cercare di infilarla tra le rilegature di due libri mal accostati.
È mentre l'arco di schiena di Geraldine è teso come quello di Ulisse prima della strage dei Proci; è mentre la furia di Ernesto scocca veloce come il braccio d'Aiace; è mentre i capelli biondi di lei sono tesi quanto le corde della cetra d'Apollo; è mentre si colpiscono in sincronia perfetta e mammifera, in tempo e controtempo ritmicamente concordi, che Alfio li vede. E loro vedono lui, in controluce, e possono solo indovinare l'espressione del suo volto. E dovrebbero spaventarsi, separarsi, vergognarsi. Ma non possono, ancora.
Alfio è immobile, e li vede mentre volano l'uno nell'altro. Vede che sentono la sua presenza, e vede che la loro passione non sente ugualmente ragioni. Trenta secondi ancora, solo per loro. Trenta secondi e gli occhi chiusi dell'orgasmo, gli alluci rattrappiti a cercare di fermare l'anima, la gola secca dal passaggio infuocato dell'ineffabile. Solo dopo, stremati, cercano di ricomporsi un po', provano a parlare, a dire qualcosa, in italiano, francese.
Alfio non sente e non capisce una parola. Avrebbe potuto anche essere cinese o hindi, avrebbe potuto essere la parola che salva il mondo; Alfio non la sentiva e non la capiva. E non sentiva neanche vera gelosia, neanche scandalo, neppure dolore. Solo sorpresa: l'infinita sorpresa di chi si rendeva conto, per la prima volta, di non aver saputo davvero cosa significasse fare l'amore.

Nei due anni seguenti trovarono un equilibrio improbabile. Alfio amava Geraldine, Ernesto amava Geraldine, Geraldine voleva entrambi; Alfio di giorno e in pubblico, Ernesto di notte e in privato. E Alfio rinunciò alle sue notti, ed Ernesto rinunciò ai suoi giorni. Era l'unica maniera per averla: vissero sotto lo stesso tetto per i due anni successivi.

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Pubblicato l'11 novembre 2008.

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