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Giovedì briscola

Capitolo diciassette, di chinalski

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Erano i primi anni del ventunesimo secolo, e da qualche anno il conte e Brienza erano tornati in Italia, a Torino, dopo avere girato il mondo per quasi quindici anni.
I risultati evidenti del trascorrere degli ultimi anni erano stati: il conte aveva superato i cinquant'anni e da allora gli piaceva pensare di sé come a un "bel signore"; sempre il conte aveva perso tutti i soldi che aveva all'inizio dell'avventura, ma sembrava che la sua scorta di parenti ricchi fosse sterminata, e che questi non desiderassero altro che morire per poterlo beneficiare di solide eredità, col risultato di renderlo immeritatamente più ricco di quando aveva iniziato gli affari; Brienza, grazie alle frequentazioni con gente di livello intellettuale e culturale superiore, era riuscito a raffinare i propri modi e il proprio linguaggio, e riusciva pure a leggere se la cosa poteva portargli dei vantaggi; il conte e Brienza erano stati inseparabili per così tanto tempo che anche dopo la fine del loro rapporto lavorativo non potevano più fare a meno uno dell'altro: il conte della capacità di Brienza di procurargli donne e divertimenti, e Brienza della facciata di rispettabilità del conte, tutti e due delle partite a carte serali.
I risultati meno evidenti degli ultimi anni trascorsi erano: il conte era diventato duro e cinico, e non credeva più a nulla che non gli fosse detto da Melchit, che aveva oramai stabilmente assunto il ruolo di sua guida spirituale remota; Brienza aveva imparato come muoversi nell'illegalità senza dare troppo nell'occhio e, specialmente, rendendo preventivamente inoffensivi coloro che avrebbero potuto metterlo in difficoltà, e da un po' di tempo i suoi maneggi erano diventati per lui una piacevole routine.

Pensa in quegli stessi anni aveva affidato i figli alla sorella nubile e andava a visitarli solo saltuariamente, la sua vita era limitata al lavoro nel bar-copisteria-caffèletterario che ora si chiamava "Colombia Internet Point", alle frequentazioni che faceva su internet, a qualche scopata occasionale con le giovani clienti o qualche prostituta e, quando voleva provare sensazioni forti, a un viaggio in Italia o in Europa con annesso stupro di qualche ragazzina minorenne. Le chiamava "le mie piccole, meritate vacanze", e sembravano essere l'unica cosa che risvegliasse il suo interesse. A parte l'enigmistica: aveva incominciato a giocare con le parole e prima a risolvere, poi a inventare giochi per le riviste, infine a collezionare materiale enigmistico dei tempi passati. Amava poi gli elenchi: ad esempio, di parole che finiscono con le stesse lettere: abitacolo, veicolo, muscolo, oracolo, pinnacolo, reticolo. Oppure, ma era più facile, di parole che iniziano con le stesse lettere: colangite, collutazione, colpevole, coltre, colono: sembrava che avesse un dizionario in testa, per la velocità con cui produceva questi elenchi. Lo spirito di Pensa, tra uno stupro e l'altro, tra un colophon e l'altro, riusciva a trovare un po' di pace solo grazie ai suoi giochi di parole.

Brienza non aveva tardato a mettersi in contatto con le organizzazioni criminali a Torino, ed era particolarmente interessato allo spaccio di droga perché lo riteneva il modo migliore e più redditizio per investire i soldi guadagnati in giro per il mondo. Brienza non era interessato ai soldi per spenderli, ma il suo era un accumulo fine a sé stesso, e se proprio si voleva trovare un motivo in questo agire sarebbe stato la rivalsa: accumulava più soldi di quelli che avrebbe mai potuto spendere per rivalsa verso l'infanzia povera; per rivalsa verso il conte che i soldi invece non era proprio capace di farli fruttare; per rivalsa verso le donne che lo desideravano, ne era conscio, unicamente perché era ricco, e questo gliele faceva disprezzare ancora di più. Brienza aveva adocchiato come base per lo spaccio di droga un grigio locale nei dintorni dell'università: ottima posizione centrale, grande traffico di gente, clientela già formata e danarosa. Adottò il suo solito metodo per convincere il proprietario a fornire la sua collaborazione all'affare da lui pensato: metterlo nella condizione di non potere rifiutare l'offerta. Brienza era un esperto nel trovare i punti deboli in una persona, erano poi i suoi collaboratori che avrebbero approfondito l'argomento fino a costruire un meccanismo che avrebbe piegato le ginocchia della vittima. Erano bastate poche visite a Brienza per capire che le "piccole, meritate vacanze" del proprietario promettevano di nascondere qualcosa di poco chiaro e legale, era solo questione di costruire delle prove. Servì un mese di lavoro, dopodiché Brienza aveva in mano delle fotografie, dei biglietti del treno, ricevute, registrazioni, date e orari dell'ultima vacanza di Pensa a Nantes, tutte documentanti senza possibilità di replica l'ultimo stupro dell'uomo.

Tre giorni dopo Brienza era seduto a un tavolino del Colombia, stava bevendo un Crodino e mangiando qualche patatina svogliatamente. A un certo punto si alzò, andò al bancone e chiese al proprietario - Mi può fare una fotocopia di questa? - mostrandogli una foto di Pensa che scendeva da un treno, alla stazione di Nantes, scattata la settimana precedente. Pensa prese la foto in mano, la guardò e stette immobile. Si sentì tagliato in due, senza speranza, come deve sentirsi la zolla divisa dal coltro dell'aratro. Passarono dieci, quindici secondi, poi Pensa fece un cenno a Brienza di seguirlo nello studio dietro al bancone. Come si dice, fu una discussione tra galantuomini: nessuna scenata, nessuna minaccia o coltelli che vengono sguainati; Pensa sapeva di essere nelle mani di un ricattatore di professione, e Brienza aveva capito che non aveva a che fare solo con un poveraccio incapace di tenere a bada le proprie pulsioni, ma che era uno che con la droga ci sapeva fare. Ma Brienza sapeva che era ancora presto per pensare a qualche accordo con il proprietario del Colombia: per ora doveva solo fornire il locale, ed essere ben motivato a fare in modo che la polizia non sapesse nulla dei traffici, doveva capire che non aveva nessuna possibilità di fare il doppio gioco e rimanere libero e vivo.
Tutto fu chiarito in breve tempo, Pensa capì di non avere scelta, e ritornare a lavorare nella droga era un pensiero che comunque aveva avuto negli anni trascorsi dal suo ritorno a Torino, e poi Brienza gli assicurava che, lavorando bene, anche lui avrebbe avuto il suo guadagno dallo spaccio. Aveva però le spalle al muro, e questo non gli piaceva: era completamente nelle mani di Brienza, e aveva capito di non potere assolutamente fidarsi di quell'uomo, sapeva che al primo intoppo, o appena l'altro ne avesse avuto il minimo vantaggio, lui sarebbe stato prelevato dalla Polizia con due accuse, di stupro e spaccio di droga, complete di prove. Dopo che Brienza era uscito dal locale si sedette, spossato, e sentì una fitta nel petto, sulla destra: brutto segno. Si alzò e prese il suo colagogo, anche se non era il momento adatto, e si sentì un po' meglio.
Nelle tre settimane successive la rete di approvvigionamento della droga fu creata, e i primi clienti iniziarono a conoscere il nuovo punto di vendita, affidabile ed elegante, che proponeva droghe di alta qualità a una clientela selezionata. Pensa prese il porto d'armi e si comprò una specie di colt da tenere nel cassetto del bancone: non l'avrebbe mai usata, pensava, ma era in grado di trasmettergli la sensazione di potere badare a sé stesso se si fosse trovato in pericolo.

Il Conte amava, da quando era tornato nella sua città natale, trascorrere buona parte del tempo immerso in pensieri malinconici, ogni tanto organizzava brevi viaggi nei luoghi della gioventù non per il piacere di rivederli, ma perché così poteva assaporare la nostalgia di ciò che non avrebbe più potuto essere, per ricordare i tempi passati che ora gli sembravano sempre più felici di ciò che era avvenuto successivamente, per potere ripensare ai presunti errori commessi e per passare ore e ore a immaginare come sarebbe stata la sua vita se il passato fosse stato diverso. Un giorno, per caso, capitò di fronte alla legatoria di Ernesto Pensa, e anche se aveva sempre ripensato a quello strano periodo, quasi magico, quando aveva vissuto con Geraldine e con Ernesto, trovarsi di fronte a quel luogo reale, rimasto identico da allora, lo colpì profondamente. Spinse la porta della legatoria Pensa, l'insegna era rimasta la stessa, il vezzo di tenere una vecchia colubrina in vetrina anche, ed entrò, senza pensare a ciò che stava facendo. Non c'era nessuno nel negozio, iniziò a sfogliare dei libri, senza vederli realmente, ma con la strana sensazione di stare toccando dei libri che Geraldine aveva amato e sfogliato, poi fu attirato da una boccetta di vetro marroncina, all'interno di un espositore pieno di boccette di vetro colorate, e la prese in mano.
- Si tratta di colloide bicromato. Una volta serviva per la stampa delle fotografie, e ancora adesso, nonostante le macchine digitali, qualcuno lo usa.
Si girò con un'espressione di felicità, che gli era rimasta stampata sulla faccia suo malgrado. Non era solo il ricordo dei tempi antichi e di Geraldine che l'aveva colpito, ma anche la r pizzicata della voce della regazza che era emersa dal retro del negozio: assomigliava incredibilmente, nel suo ricordo, alla r francese della sua antica amica. Il sorriso gli era rimasto sulle labbra nonostante la ragazza non avesse nulla di Geraldine: era bionda quando l'altra era mora, i capelli erano lisci invece che ricci, era prosperosa dove l'altra era magra, ed era sorridente invece che essere seria e imbronciata: no, non poteva avere nulla a che vedere con lei, o col suo fantasma.
- Colloide bicromato, certo. È suo il negozio?
No, la ragazza era solo la commessa.
- Il proprietario è sempre il signor Pensa?
No, non era più il signor Pensa, da anni.
- Lei sa come posso trovare il signor Pensa? Era un mio amico di gioventù, non lo vedo da tanto tempo.
Certo che lo sapeva: ogni tanto faceva ancora visita al vecchio negozio, cercava riviste di enigmistica, libretti con giochi di parole e simili. Anzi, in serata sarebbe dovuto passare in negozio a ritirare un libro che aveva ordinato, in genere veniva poco prima della chiusura.

Alle sette di sera il conte era davanti al negozio, a passeggiare fumando una sigaretta, quando arrivò Pensa. Gli si fece avanti, in atteggiamento finto-umile.
- Ernesto Pensa, suppongo.
- Mi scusi, lei chi è?
A Ernesto era bastato il tempo di formulare la domanda per riconoscere il vecchio amico Alfio. Si abbracciarono, parlando contemporaneamente, e continuando a parlare contemporaneamente si avviarono a bere un aperitivo. Erano uniti nel ricordo di Geraldine, e il tempo passato senza vedersi aveva fatto crescere, ora se ne accorgevano, la loro amicizia, eliminando quel poco che c'era di gelosia tra i due, per la presenza della donna in mezzo a loro. Si raccontarono le proprie vite, tralasciando i particolari più imbarazzanti, scherzarono e si presero in giro come se si fossero lasciati il giorno prima, come se fossero due liceali in vacanza.

a sera successiva Ernesto stava suonando al citofono su un portone di ingresso in piazza Castello. F6 c'era scritto sul campanello, che doveva corrispondere all'alloggio del conte Alfio, se non l'aveva preso in giro quando l'aveva invitato a cena il giorno prima. Salì al terzo piano, e fu introdotto nell'alloggio da un cameriere impeccabile, che gli prese il cappotto e lo introdusse nella sala. Qui erano seduti il conte e... Insieme al conte c'era qullo sgradevole personaggio che era venuto nel suo locale a ricattarlo e che l'aveva obbligato a tornare nel monde dello spaccio. Pensa rimase per qualche istante immobilizzato dalla sorpresa, poi sentì il conte che gli diceva - Ernesto, ti presento Luigi Brienza, è stato il mio fedele compagno di viaggio negli anni in cui vagabondavamo per il mondo. Vive anche lui in questa casa. - Si strinsero la mano e si dissero qualche parola di circostanza. Brienza non era meno stupito di Pensa di quell'incontro, ma la sua freddezza e l'impassibilità dell'espressione fecero pensare a Pensa che il conte potesse sapere anche lui del ricatto, che ne fosse coinvolto e che avesse organizzato, per qualche scopo, quella cena. Nonostante le premesse disastrose fu una piacevole serata: il conte era affabile e amichevole come il giorno prima, Ernesto presto dimenticò che si trovava nella casa di colui che aveva in mano il suo destino, Brienza dal canto suo era ancora più taciturno del solito, e sembrava facesse di tutto per fare dimenticare la propria presenza ai due amici. L'ottimo cibo e il vino ebbero anche loro una parte importante nella buona riuscita della serata: la cena fu incentrata su piatti e vini piemontesi, con un unico capriccio fuori dalla regione: tra gli antipasti fu servito un piatto di colascioni, di cui Brienza andava ghiotto. La sensazione iniziale di Ernesto, che aveva previsto che lui e Brienza dovessero collidere catastroficamente in quella serata, si rivelò quindi sbagliata, anzi, il periodo trascorso a fianco a fianco di Brienza fu quello in cui meno pensò con angoscia alla brutta situazione in cui era venuto a trovarsi.

 

Pubblicato il 20 gennaio 2010.

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