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Giovedì briscola

Capitolo uno, di chinalski

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Tutto concorre a fare della stanza un antro buio e opprimente. La tappezzeria è di seta verde scuro, c'è stato un periodo in cui era elegante e alla moda, ma ora è un vestigio di momenti migliori. Non sono più allegri i quadri appesi alla parete: un uomo che da tempo immemore sta cercando di avere la meglio sulla divisa militare che lo costringe a mantenere una posa eretta ed eccessivamente rigida, a dispetto del volto rubicondo e morbido. Di fianco a lui la controparte femminile: una donna segaligna, vestita di un bianco svolazzante e aereo, come se fosse una ragazzina ingenua invece di una donna incattivita dalla vita coniugale e dalle invidie. Le cornici che una volta erano dorate fanno da controcanto alle decorazioni militari e ai gioielli dei due. In mezzo ai due quadri un tavolino da parete, involuto e attorcigliato su sé stesso, non potrebbe stare in piedi se non appoggiandosi a qualcosa di più solido e stabile, come è il muro. Più a destra la porta, aperta, di quelle imponenti, con dei cardini che potrebbero sopportare dei pesi enormi, dei cardini che vorrebbero lavorare in un porto, sudare, fare vedere che carattere forte hanno, ma che sono stati ingabbiati in una stupida casa borghese, e il cui unico triste mestiere è fare scivolare la porta quando, il giovedì, si usa il salotto buono per gli ospiti, unica sera della settimana in cui vengono degnati di considerazione, i cardini. La porta, ovviamente, di legno robusto e lavorato, vanto della falegnameria piemontese di inizio ottocento e oramai anch'essa costretta a vivacchiare nel buio, in attesa di una ristrutturazione che la sostituirà definitivamente con una porta di mogano e inserti di vetro colorati. L'angolo della parete, poi la porta a vetri che dà sul balcone nascosta dietro tende pesanti tonnellate, piene di ricami, di cordoni, di fili, chiuse per non fare filtrare la luce di piazza Castello. Orrore, la luce. Lo specchio, che non specchia più da anni, e un'altra porta, un altro balcone, altre tende-macigno; non serve chiudere le gelosie: la luce non si sognerebbe mai di cercare di attraversare la spessa cortina che la blocca, per fare cosa, poi? Per rimanere anch'essa intrappolata nell'antro? Meglio circolare nella piazza, in mezzo alle automobili, ai ragazzi chiassosi. Un altro angolo. Un'altra porta, chiusa. Il comò è nel posto dove dovrebbero stare i comò nelle case per bene, e sopra l'immancabile orologio barocco, e il solito vaso cinese, ma non il cinese delle imitazioni: cinese di quando i cinesi facevano ancora delle cose originali e belle. E una poltrona. Scura, impolverata, di struttura pesante e gracile al tempo stesso: non sedetevi sopra, si vede che non c'è abituata, che la cogliereste di sorpresa e lei coglierebbe di sorpresa voi, non fornendovi alcun sostegno. Il terzo angolo, la tappezzeria che continua ad assorbire la poca luce tenendola per sè, altri quadri, di scarsa qualità sopra il divano inutile: fiori, frutta, oggetti inutili dipinti e incorniciati, difficile distinguere in questo tripudio di carogne un guizzo, un colore, un sentimento. Natura morta è il nome corretto di questi quadri, ma con poca natura. Poi, sopra la colonnina di marmo sormontata da un vaso (non cinese) con dei fiori (morti, sono secchi), improvvisamente un alito di vita, una parentesi di realtà. È una fotografia, un ragazzo in bianco e nero, elegante, con lo sguardo come a sfidare il fotografo, la mano al fianco sinistro tiene una sigaretta, l'altra col palmo in alto per mostrare qualche prodigio, purtroppo, esterno alla foto.

Tutto ciò lo si vede se gli occhi sono abituati al buio. Altrimenti, nulla, solo pareti impenetrabilmente nere. Una rotazione sul tappeto consunto e finalmente appare qualcosa di animato, ma poco. Un tavolo rotondo, probabilmente di legno, con un panno; sopra una lampada di vetro bianco opaco tenuta insieme da fasce di metallo nero. La lampada è bassa, e illumina solo il piano del tavolo, finalmente verde brillante, disordinato di carte da gioco e di monetine bronzate e argentate. Intorno quattro ombre che pregano silenziose, composte e immobili le carte. A poco a poco si intuisce qualcosa di più delle sagome. L'uomo della fotografia, il sorriso di sfida sulle labbra, è di fronte a noi, i capelli lisci ben pettinati non sono più neri ma grigi, la giacca da camera scura ha un grosso stemma sul cuore, una specie di stemma nobiliare, dorato. Si chiama Alfio Emanuele Maria de Felicis, è conte, è ricco, è il proprietario della stanza dove ci troviamo, e non ha mai avuto bisogno di lavorare. La sigaretta nella mano sinistra è spenta, gli occhi sono socchiusi, prende una carta e la posa sul tavolo, soddisfatto, poi si appoggia allo schienale per accendere con un fiammifero la sigaretta. Alla sua sinistra una ragazza, ha ventun'anni ma ne dimostra non più di diciotto, si chiama Adele, è figlia di Ernesto Pensa, deceduto, o meglio assassinato, quattro giorni prima, di cui ha preso il posto al tavolo da gioco questa sera per la prima volta. È protesa in avanti e ha gli occhi spalancati mentre studia le carte sul tavolo: il re di bastoni e una scartina; respira con un po' di affanno e si morde le guance dall'interno, ha di fronte a sé la montagna di monete più alta del tavolo. Proseguendo si incontra un uomo con gli occhi chiusi, forse in meditazione, con le guance sporche di barba nera e fitta, non alto ma possente, con le mani forti e le dita tozze. Ha vestiti semplici, non eleganti, sembra a suo agio nella stanza buia, nel suo caldo umido e fumoso. Tra poco aprirà gli occhi, esattamente quando arriverà il suo turno. Si chiama Luigi Brienza, e conosce questa casa per averci abitato a lungo. L'ultimo giocatore ha un vestito grigio impeccabile, fuma un sigaro, ha i capelli lisci, lunghi e candidi (decolorati), le mani sono curate e femminili, gli occhi grigi sono calmi e vivi, respira profondamente e sta aggrappato alle carte come se queste potessero impedirgli di affondare nell'oceano. Ha uno stemma all'occhiello della giacca, una specie di sigaro circondato da un anello, e anche i gemelli hanno la stesso simbolo. Sulla camicia ha ricamata una sola cifra: la M di Melchit, ma lui si chiama Aristide Bacci. È rilassato, superiore, probabilmente conosce cose che gli altri giocatori non potrebbero mai immaginare.

Don, don, don, don, don, don, don, don, don, don, don, don. La porta chiusa si apre ed entra un cameriere, nero e grigio, sospingendo un carrello tintinnante di tazze di ceramica decorata e di teiera panciuta fumante. I biscotti al burro non tintinnano, invece. Si muove sicuro nel buio, non incespica nemmeno nel tappeto, abbandona il mezzo di trasporto ed esce chiudendosi la porta alle spalle. Forse era un miraggio, forse si muoveva in un'altra dimensione: nessuno dei giocatori ha fatto un movimento al suo apparire, solo Adele ha avuto un sussulto, poi una rapida occhiata ai suoi immobili compagni l'ha fatta desistere da qualsiasi altro movimento. La partita termina senza altri eventi degni di nota, dopodichè il conte incassa le monete della vincita: 40 centesimi. I tre uomini si alzano contemporaneamente dalle sedie, Adele, con uno scatto, cerca anche lei di alzarsi insieme a loro, ma le rimane incastrato un piede nella gamba della sedia che la rallenta, guarda allora le tre sagome scure e sorride timidamente.
Il conte e Brienza vanno verso il tavolino di portata, mentre Melchit si rivolge alla sua compagna - Quel tre di spade, signorina, non avrebbe dovuto giocarlo.
- È vero, ma non pensavo che le avrebbero ammazzato il re di bastoni. È stata una mano sfortunata.
Il conte con una tazza di tè in mano si avvicina alla ragazza e - Signorina, gradirebbe del tè? - chiede ossequioso.
- Grazie, con grande piacere, bevo sempre volentieri del tè, - non era vero, non sopportava il tè. Ma in quel momento era sincera: le maniere del conte la affascinavano.
- Suo padre era un mio ottimo amico, ci conoscevamo da... da tanto tempo. Ne abbiamo fatte davvero tante, insieme, in gioventù e dopo.
- Non ci siamo mai parlati molto, papà e io, non era molto presente, direi, e non ci sapeva neanche molto fare con i bambini. Forse, l'unica cosa che so di lui, è che veniva a giocare a carte il giovedì sera. Credo che la sua vita sia stata molto noiosa, oh, mi scusi, non intendevo...
- Noiosa? Forse, forse signorina, chi può dire diversamente, della vita?
- Lo seppelliranno sabato, gli hanno fatto l'autopsia, in questi casi si fa così.
- Sì, in questi casi si fa così. Vogliamo riprendere, cari amici? Prego, signorina, si accomodi.

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Pubblicato il 6 ottobre 2008.

Parolata.it è a cura di Carlo Cinato.
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