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Giovedì briscola

Capitolo due, di Serena Macagni

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- È davvero una bella stagione per lasciare il mondo e per essere sepolti. Quando sono venuto a conoscenza della sua morte, il sole spaccava le pietre.
Queste ed altre frasi stanno balenando la mente del conte di fronte alla pittoresca cappella della famiglia Pensa. L'autunno stava iniziando e l'aria aveva il sapore ancora dell'estate appena trascorsa. In lontananza le sagome dei parenti un po' distaccati da lui sembrano tremolare dinanzi alla sua vista. L'aria ha un sapore denso, acre e melmoso. - Sarà l'effetto dei corpi che marciscono, pensa mentre Adele depone un piccola scatola di sigari colombiani ai piedi del loculo dove riposerà suo padre.
Il conte si avvicina ad Adele, le poggia la mano sulla spalla e lei reagisce con un piccolo sussulto di imbarazzo e sorpresa - Adele, l'ho spaventata? Mi dispiace, non era mia intenzione - poi con recitata commozione cerca di rincuorarla, - era un'ottima persona, ne abbiamo viste tante insieme ma nulla è perduto, mia cara. Resteranno i ricordi a farci partecipe della sua presenza.
Adele cerca di scrocchiare le falangi della mano destra mentre il conte reclama il suo estremo saluto ad Ernesto. Si rende immediatamente conto di come siano accomunati dalla medesima indifferenza verso quell'uomo che lui ha sempre detestato, ma il suo rango non gli permette di esprimere il livore. Una rabbia che non lo ha mai abbandonato e che si porterà anche lui nella tomba. Il più tardi possibile, ovviamente. E proprio lì, in quel luogo angusto il conte si ricorda dell'amore più tormentato e grande della sua vita: Geraldine - Geraldine, ah Geraldine. - Potrebbe ripeterlo migliaia di volte al giorno senza mai stancarsi di sentire quelle nove lettere accostate in quella determinata sequenza. Lui che non ha rimpianti e che ha sempre avuto la testa sulle spalle non può negare il fatto di averla perduta.  

Aveva poco più di di ventisette anni mademoiselle Geraldine Renaud, due anni più del conte Alfio Emanuele Maria De Felicis, ed era stata l'unica ad averlo assorbito nello spirito e nel corpo. Il conte non era certamente bello e spesso, dopo aver fatto l'amore con lei, si domandava cosa la sua donna trovasse di così attraente in lui. Il suo naso aquilino, che bonariamente suo fratello Amedeo Vittorio definiva il gran fiuto per gli affari, la sua bocca larga che si apriva in un sorriso sarcastico e il mento sfuggente come la sua persona, lo rendevano un uomo degno del suo amore? I momenti di intimità con Geraldine lo portavano a porsi degli interrogativi sulla sua persona che non veniva messa mai in discussione, in altre situazioni. Non si sentiva "perfetto" per lei dal punto di vista fisico e credeva di sfigurare davanti alla sua imponente bellezza. 

- Chi avrebbe detto che si sarebbe innamorata di me? Oppure è sempre stata solamente un'attrazione fisica - elucubra in questo momento il Conte mentre esce dalla cappella in compagnia di Adele. Ora fa più caldo, e la coppia raggiunge il gruppo dei familiari di Ernesto ormai diretti alle proprie auto. Cammina distratto, immerso nei suoi pensieri di gioventù ormai passata. Pensa che il 1971 sia stato in fin dei conti un anno buono per lui nonostante le vicissitudine che sono subentrate nel corso del tempo. - Geraldine, Ah Geraldine!  

Figlia di un diplomatico algerino e di una nobildonna francese, aveva uno charme di bellezza selvaggia mista a modi raffinati di donna del suo rango. Di carnagione olivastra, aveva capelli nero intenso che profumavano dell'essenza al gelsomino che usava mettere nei momenti di intimità. Uno sguardo intrigante, seducente e allo stesso tempo profondo che andava dritto al cuore delle persone e che lei sapeva giostrare a suo piacimento, soprattutto nei confronti degli uomini che amava. Sapeva come farsi adorare, sapeva come farsi prendere e divertirsi con il suo amante, avendo letto di soppiatto i romanzi del Marchese De Sade e di Henry Miller. Ed era proprio questo suo aspetto, che Alfio chiamava malandrino, ad attirarlo verso di lei colpendolo direttamente al cuore in ogni senso.
Si erano conosciuti nei pressi di Ginevra ad un ricevimento in onore dell'ambasciatore svizzero del quale ora il conte non ricorda o non vuole ricordare il nome. Era il suo cinquantesimo compleanno e per l'occasione era stata organizzata una battuta di caccia alla volpe in onore dei lord inglesi che avevano attraversato la Manica per i loro improrogabili affari. Il conte, grande amico dell'ambasciatore, non poteva certamente mancare ad una occasione simile. Amava viaggiare e questa era una delle sue principali attività che lui stesso definiva il senso dell'esistenza. Viaggi, divertimento, donne, alcool, acquistare opere d'arte e una buona sigaretta erano per lui il simbolo della sua posizione. Non li avrebbe scambiati per nulla al mondo con le miserie del genere umano. Cosa significava e cosa significa per lui lavorare certamente non poteva e non può essere espresso con le parole dei barbari. La classe lavorativa, come lui stesso la definiva. Anche allora non si sentiva un uomo ostile, piuttosto credeva che fossero i lavoratori ad essere colpevoli della loro ignoranza e del loro malcostume. Il conte Alfio Emanuele Maria De Felicis non voleva certamente che le cose cambiassero e che un giorno si ritrovasse a pranzo seduto accanto a un rappresentante della manodopera delle fabbriche che devastavano l'aria di Torino.

- Perbacco, si è fatto tardi. Geronimo portami alla villa. - De Felicis dà il suo ultimo saluto alla figlia della salma e, senza guardare nessuno, fa cenno al suo chauffeur di tornare con lui all'auto. Si siede al sedile posteriore della sua, una volta sfavillante, Mercedes Benz e si accorge di avere dei capelli sulla sua giacca nera. Gli anni stanno passando anche per lui ma non il ricordo della sua amata Geraldine.  

- Mio caro, vorrei presentarti mademoiselle Geraldine Renaud. È la figlia di un nostro diplomatico qui a Ginevra. - disse l'ambasciatore svizzero al cospetto di quella misteriosa creatura. La donna gli porse il braccio e lui si chinò a sfiorarle con le labbra la mano. Notò che aveva dita affusolate ornate da due anelli d'oro bianco che la rendevano un dono delizioso. Non era mai stata a Torino anche se aveva visitato l'Italia diverse volte nell'arco della sua giovane esistenza. Milano, Venezia, Bologna, Roma, Napoli, Palermo le conosceva alla perfezione ma Torino non faceva parte del suo carnet di viaggi. Parlava con un tono di voce quasi sussurrato e molto suadente. Un sospiro d'amore che incorniciava il quadro che lui stava dipingendo nei riguardi della sua figura. Il suo nasino all'insù si muoveva seguendo il ritmo delle parole che uscivano da quella bocca delicata come un bocciolo di rosa. Diceva tutto ciò toccando leggermente il bordo interno del suo calice di champagne con l'indice della mano sinistra. Il conte trovò questo gesto sensuale e al tempo stesso provocatorio e non riusciva a togliere il suo sguardo davanti a quel gioiello della natura. Ci pensò suo fratello Amedeo Vittorio a farlo distogliere informandolo che il suo cavallo era pronto per la battuta di caccia che si sarebbe tenuta di lì a poco. L'interruzione lo portò ad un livello di irritazione non indifferente, ma il suo bonton non gli permetteva di prendersela con suo fratello maggiore che lo aveva solamente avvisato.
Prese il suo fucile da caccia che era stato di suo padre e si ritrovò a galoppare sul proprio cavallo fra le Alpi nei pressi del lago in compagnia dei lord avvezzi a tale sport. Ma il suo ego era talmente forte che desiderava a tutti i costi conquistare quella preda. La caccia era il suo sport preferito anche se non aveva molti proseliti fra i suoi familiari ed amici. Loro preferivano dedicarsi ad altre arti che definivano più nobili come la musica o la letteratura, oppure impegnarsi semplicemente negli affari. Sì, gli piaceva acquistare quadri e suppellettili di un certo valore ma non poteva certo dire di essere un intellettuale. Lo faceva seguendo la moda del momento, per avere una villa degna dello stemma che portava su ogni giacca. Al contrario amava davvero cacciare. Aveva perfino allevato un falcone come nelle usanze medievali e si divertiva ad andare in campagna a cacciare qualsiasi cosa che svolazzasse nel cielo.
E come un bravo predatore, finalmente riuscì quel giorno a raggiungere il suo disegno. Vide da lontano una sagoma incespicante nei pressi di un albero. Si dibatteva piegata su se stessa desiderosa di alleviare il proprio dolore per il colpo subito. Il conte si avvicinò a cavallo e smontò per vedere che cosa fosse successo a quell'essere che sembrava tanto indifeso. Geraldine era caduta dal suo destriero in seguito allo sparo in direzione della volpe da parte di uno dei lord. Il povero animale si era imbizzarrito per lo spavento catapultando la donna per terra e procurandole la slogatura della sua esile caviglia. Era stata fortunata: poteva rimetterci la vita. Il conte cercò di sollevarla ma i suoi tentativi per far rialzare mademoiselle Renaud nella posizione eretta risultarono vani. Decise allora di prenderla fra le braccia e rimase colpito dalla visione di inferno paradisiaco che lei emanava da tutti i pori della pelle. I suo lunghi capelli neri erano scapigliati conferendole un aspetto da Diana, dea della caccia, che aveva smarrito la propria strada e la propria condotta. Alcuni bottoni della sua camicetta si erano strappati in seguito alla caduta rivelando qualcosa che non doveva essere mostrato. Aveva un aspetto selvatico, al tempo stesso indifeso e seducente. Si chinò verso di lei e la baciò con autentico ardore come se l'amasse da una vita intera. Rimase colpito dal fatto che il suo trasporto verso di lei veniva contraccambiato con altrettanta foga e passione. Sembrava che il lungo bacio che si stavano scambiando in quel preciso momento, in quelle date circostanze avesse avuto un effetto balsamico sulla caviglia dell'amata. Con piacere e sorpresa, Il conte scoprì in breve tempo di essere stato il suo primo uomo. I dolori che Geraldine aveva provato, in quel momento di complicità vennero leniti dal piacere e dalla scoperta di qualcosa di più stupefacente e grandioso. 

- Mi amavi Geraldine o era semplicemente una mia illusione? - si domanda ora il conte davanti al balcone del suo salotto, proprio quello dove tutti i giovedì sera si gioca a briscola. Ormai il cielo non è più terso ma grandi nubi cariche di pioggia stanno coprendo la città. Gli sembra come se Dio si fosse ricordato solo oggi che un suo figlio perduto sia ora nelle mani del diavolo, e stia piangendo per questo motivo. Si accende una delle sue immancabili sigarette e non riesce a lasciare il ricordo di Ernesto e quello di Geraldine. Si siede alla poltrona e sfoglia un suo album di fotografie che aveva messo sul tavolino la sera prima. Rimane colpito dalla foto di lei, con il suo Cherì, uno dei suoi piccoli volpini che le aveva regalato in occasione del suo ventinovesimo compleanno. Il vestito color azzurrino risalta sulla sua pelle perennemente abbronzata e i capelli raccolti mostrano la bellezza del suo collo che lui amava ricoprire di succhiotti.  
- Comunque c'è stata passione fra noi, Geraldine. - Ricorda ancora quel giorno il conte, un giorno lieto e al tempo stesso infausto. Un bicchiere di whiskey on the rocks fa proprio al suo caso. Ordina da bere noncurante che sia quasi ora di cena. Non vuole sbronzarsi. Il conte desidera solo disinfettare le sue ferite che non si sono mai rimarginate.  

Geraldine amava molto leggere libri di letteratura sia antica che moderna. Aveva una raccolta di poesie francesi appartenute a suo nonno e desiderava farla rilegare in cuoio con intarsi in pelle rappresentanti motivi floreali. Aveva scoperto che nei pressi del centro storico si trovava un negozio specializzato nel restauro di libri antichi. Voleva regalargliela per invitarlo, al culto della poesia, come spesso diceva sorridendo mostrando i suoi candidi denti bianchi. Il conte l'assecondava in ogni suo desiderio, in ogni sua aspettativa per preservarsi da qualcosa che sarebbe di lì accaduta. Nonostante fosse stato un uomo sicuro di sè, il conte temeva di perderla da un momento all'altro. Non era mai riuscito a possederla totalmente. Geraldine era sempre sfuggente, un animale non domato del tutto che cercava sempre di mantenere una certa indipendenza. Lei non amava essere prevaricata, voleva essere trattata come una donna del suo ceto ma usava un certo tatto e un certo gusto. Poteva essere considerata una donna caratterizzata da una sorta di aggressività passiva che celava con buone maniere, gusto e raffinatezze.
Prese la sua auto sportiva, una spider color crema dono del conte, e si recò nella rilegatoria che vendeva stampe. Un giovane uomo dall'apparente aria distratta l'accolse freddamente e sgarbatamente. - Ah sì, un libro... le costerà un occhio della testa. Ha il denaro a sufficienza o dovrà aprire un mutuo? Come venne a sapere in seguito il conte Alfio Emanuele Maria De Felicis dalle parole di Geraldine, la donna non capì al momento il motivo per il quale Ernesto Pensa fosse stato così scortese. Era un uomo piuttosto timido ed insicuro e lo si poteva scoprire dalle unghie mangiate fino alla carne, dall'aspetto che celava un certo nervosismo di fronte alle belle donne, dalla sua incapacità di guardare dritto negli occhi. Mademoiselle Geraldine Renaud non gli era passata per nulla inosservata. Per brevi attimi i loro sguardi si erano incontrati rivelando una certa inquietudine ed imbarazzo nel cuore di entrambi. Da cosa dipendesse tutto ciò non erano ancora in grado di capirlo. Tuttavia Ernesto non aveva affatto l'aspetto dello pseudo topo da biblioteca, dell'uomo che vive nella penombra tra le carte e i libri. Sembrava una di quelle statue greco-romane coperta dalla polvere e dalle ragnatele del vissuto che rivelavano una bellezza fuori dal comune, perfetta in ogni punto. Bruno dagli occhi molto scuri che a volte tendeva a stringere leggermente nei momenti di concentrazione. Avrebbe dovuto portare gli occhiali, per una leggera miopia, ma per pigrizia li lasciava sempre sul tavolo del suo laboratorio. - Ce la faccio anche senza, - si ripeteva spesso tra sè ogni volta che doveva iniziare un nuovo lavoro - mi fanno venire il mal di testa, accidenti!
Aveva ereditato il negozio di rilegatoria e stampe da suo padre ormai deceduto da tempo. Una vecchia iena che aveva le mani in pasta dappertutto, in ogni ramo del commercio essendo una sorta di usuraio, un traffichino, un aguzzino, un uomo senza scrupoli. Un uomo le cui attività avevano reso ricco e, al tempo stesso, timorato. Ernesto non voleva avere niente a che vedere con gli affari di suo padre. Non voleva avere niente a che fare con lui. Dopo le sue esequie e la successiva cremazione, il ragazzo aveva gettato le ceneri di suo padre nella tazza del water e tirato la catena dello scarico. Un gesto che non si pentì mai di avere commesso, ma che lo segnò per il resto della vita. Si sentiva quasi fiero di ciò che aveva fatto e che gli diede una certa carica per riprendere in mano la sua vita sbalestrata. Tuttavia il ragazzo doveva pur sbarcare il lunario, per cui scese a patti con i propri principi e decise di prendersi il locale che una volta era stato di un cliente di suo padre. Non aveva attualmente una ragazza fissa anche se il suo aspetto latino rendeva le cose più facili. Le ragazze lo circondavano come le mosche il prosciutto, gli telefonavano in continuazione ma lui sembrava incapace di amare veramente una donna. La sua insicurezza con le donne lo rendeva vulnerabile e loro lo prendevano talvolta in giro divorandolo come un frutto proibito. Si era innamorato più volte ma non con la stessa intensità che poteva vedere in un film d'amore degli anni cinquanta e sessanta. Lui spesso andava al cinema con gli amici del quartiere e sognava la conturbante Kim Novak tra le sue braccia o la delicata Brigitte Bardot che bisbigliava parole dolci alle orecchie. Si domandava cosa avessero di speciale le attrici. Forse perchè erano donne irraggiungibili, fiere, altere.
Aveva ormai riposto le sue speranze, quando l'apparizione di quella misteriosa donna dal sussurrato accento francese dette una improvvisa, decisa scossa alla sua rassegnazione.

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Pubblicato il 14 ottobre 2008.

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