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Giovedì briscola

Capitolo sei, di Fosca Medizza

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Per Geraldine le notti vissute nella camera di Ernesto avevano il sapore della leggerezza. Diventava un'altra donna, varcata quella soglia: smetteva i panni della parassita esperta che governa casa e vita altrui, per indossare quelli succinti ed intimi dell'amante borghese che gratta il barile della voluttà.
Durante il giorno che precedeva l'incontro fantasticava su come si sarebbe vestita e poi svestita, su quale posizione voleva giocare il match, quale piccolo nuovo diversivo apportare... Poi invece a volte entrava, si toccavano appena, si baciavano per un attimo e già si trovavano l'uno dentro l'altra a sciogliere la passione fino ad assorbirla dentro la carne. Era un amante straordinario Ernesto, lei era una vera puttana come deve essere una vera donna. Ogni gemito, ogni lamento di Geraldine, la sua erre francese che ansimava “Prendimi amore” era un sospiro dentro i neuroni di lui, che assumevano nuovo vigore ad ogni alito caldo. Lei sapeva accogliere ed ospitare la virilità corposa del suo amante, lui sapeva guidare il gioco fino al limite estremo che innesca il godimento che rapisce e per un breve tratto affranca gli esseri mortali dalla schiavitù terrena.
Alfio sapeva bene che martedì o venerdì, i giorni  durante i quali si recava a controllare gli operai alle sue cantine novaresi, erano ore di agognata libertà per la sua compagna e si fermava appositamente fuori a trascorrere la notte, per lasciarle amministrare quella libertà in piena autonomia. A qualsiasi costo, con qualsiasi mezzo, doveva impedire che accadesse qualcosa per cui lei potesse andare via, lasciarlo, lasciarlo solo per sempre. Preferiva dividerla che perderla. Preferiva morire che essere abbandonato.
E una forma di perversione che si era impadronita di lui date le circostanze, gli faceva sentire un'eccitazione fortissima a pensarla unita ad Ernesto. La immaginava umida e schiusa ad un coito che gli piaceva guardare con la mente, un fremito che cresceva coi minuti, fino a divenire desiderio puro. Questo stato emotivo perdurava fino al suo rientro a Torino. La casa lo accoglieva come sempre con calore, il domestico col  riguardo di rito, Geraldine col solito sorriso luminoso di chi non ammette soluzione diversa.
Subito, voleva toccare la pelle di quella donna che sapeva riconoscere la saliva di due uomini diversi ed ingoiarla come acqua di fonte, si faceva seguire in camera da letto, le baciava il collo, si faceva spogliare guidandole la mano fino alla cerniera dei pantaloni, le diceva - Dimmi che hai pensato a me mentre ti scopava, come ti baciava? Cosa gli hai fatto, come ha goduto? Geraldine, dimmi che non mi lasci mai, che me lo prendi sempre così, - e le premeva le guance sul suo tangibile vigore ormai esposto alla luce morbida di quella camera sorda al dolore.
Ma Alfio non era Ernesto. Alfio non sapeva donarsi nell'amore, voleva essere risucchiato ancestralmente, voleva annullarsi in un getto organico che avesse i connotati dell'orgasmo concluso avidamente. Nessuna fantasia, solo il terrore di non riuscire a portare a termine con orgoglio un'erezione che serviva solo a farlo sentire maschio.
Le labbra di Geraldine conoscevano bene quella paura e si adoperavano con maestria perché il miracolo eiaculatorio si compisse ancora e sempre. Legati dalla paura di non essere all'altezza di un gesto d'amore autentico.

Un martedì Alfio trovò un problema alle cantine: i tappi di sughero per l'imbottigliamento del Bonarda erano di diametro sbagliato. Nessuno degli impiegati si era accorto di niente fino al momento dell'utilizzo. - Stolti, stolti operai senza cervello, altro che uva rara, dovrebbero inscatolare corbezzoli quei tonti, - bofonchiava Alfio: occorreva fermarsi al laboratorio ed inventarsi una soluzione entro un paio di giorni.
Geraldine apprese la notizia con allegria ed un quarto d'ora più tardi era sotto casa di Ernesto, la chiave nella toppa, lei col vestito rosso e leggero degli incontri più vivaci.
Si sarebbe fatta trovare con un bicchiere di prosecco in mano ed un altro pronto per Ernesto. Lui sarebbe arrivato alle diciotto,  aveva quindi ancora un'ora di tempo. Si sdraiò sul letto e, poggiata la testa sul cuscino, cominciò ad osservare quella stanza che ormai le era così familiare. Conosceva benissimo anche le crepe sul tetto, i graffi sui mobili, le macchie di antico sullo specchio dell'armadio... Guardando l'armadio, notò che dalla sommità sporgeva qualcosa. Si alzò, si spinse fino a raggiungere quell'oggetto che disegnava un angolo retto oltre il perimetro del legno, riuscì con la punta delle dita a prenderlo: era una busta di cartoncino verde. Quando la ebbe fra le mani, la capovolse e lesse “Amore”.
“Amore”, questa era la parola scritta su quel raccoglitore rigonfio; dentro, una cinquantina di fogli di diverso formato, lettere ricevute, appunti, pensieri fermati su pezzetti carta o fogli di block notes. Linetta, questo il nome di chi firmava le pagine, il nome che ricorreva fra le frasi scritte con la grafia spigolosa di Ernesto. Chi era la donna chiamata “Amore”? Le buste non erano disposte in ordine cronologico, le date andavano dal 1974 al 1975, Ernesto aveva forse conservato le lettere, tutte brevissime, che gli sembravano più significative per catalogare ricordi precisi.
In cima alla raccolta una nota di Ernesto del 30 aprile 1974, lui aveva scritto “Amore, domani mi priverai di te? E' la festa più importante per noi, le tue sorelle ti distrarranno, i compagni ruberanno le tue attenzioni? Mi penserai? Io neanche per un attimo sarò lontano da te. Tu possiedi la mia mente.”
Cercò di fare una rapida ricostruzione: quella festa a cui alludeva il suo amante, quel Primo maggio, Geraldine ed Ernesto lo avevano trascorso in gita fuori porta, tagliatelle con funghi porcini in un ristorante elegantissimo gestito da una nobildonna in una sorta di piccolo castello romantico, avevano poi passeggiato nel parco poco scaldato da una primavera un po' tardiva. Lui aveva preteso di fare l'amore in un angolo appartato della casina di caccia: le calze le si erano sfilate, le guance arrossate, erano tornati in macchina un po' storditi; sdraiato sul sedile dell'auto leggermente reclinato lui l'aveva carezzata fra le gambe: non sembrava un uomo la cui mente appartenesse ad un'altra donna.
Un'altra lettera del marzo 1975, era “Amore” a scrivere “Potresti non dirmi le parole che sai dirmi, ormai amo anche il tuo silenzio così segreto, la tua mano mi raggiunge ogni volta che lo desidero: mi basta chiudere gli occhi e la tua voce carezza ogni mio respiro”.
La prima lettera, voleva leggere la prima lettera... dunque: dicembre, settembre, ecco… gennaio.
“Asti, 12 gennaio 1974
Ernesto adorato, avverto la tua presenza qui intorno alla mia persona, ti espandi ed occupi gli spazi in cui mi muovo, come un gas nobile. Non importa che tu non sia qui con me adesso, io ti vedo e ti sento...”
Ernesto, dunque, aveva intrecciato una relazione a distanza con codesta Linetta. - Che nome lezioso, certamente una popolana, - pensò Geraldine. Si sedette sulla sponda di quel letto che non le poteva più appartenere per leggere ogni rigo di quella raccolta inedita. Sì, inedita, una sorpresa inaspettata.
Cercò indizi che le spiegassero le radici di quel legame, le ragioni: forse il corpo di Linetta, forse una chioma bionda o le cosce lunghe, ma niente. Nessuna traccia di fisicità espressa, addirittura in un frammento di foglio azzurro Ernesto aveva scritto con inchiostro nero per stilografica: “Amore, mai il mio pensiero si ferma alla tua apparenza, non il tuo corpo, ma la tua profondità vince la mia ragione. Forse non ti possiederò mai e forse per questo mi appartieni completamente.”
Nessun amplesso, quindi a Geraldine era proibito anche provare disgusto per i loro incontri carnali, niente sesso, solo “Amore”. Come misurarsi con una rivale che non compete con capezzoli grandi come tappi di bottiglia o culo brasiliano duro come il ferro? Non puoi scavalcare un'antagonista che adopera solo la sua trama mentale per tenere prigioniero un uomo.
Ma doveva pur esserci dell'altro a legarli, qualche diavoleria trascendente: per quale misteriosa ragione quei due cervelli si bastavano? La risposta doveva essere senza dubbio fra quelle carte. Rovistò meticolosamente, analizzò anche i piccoli segni agli angoli dei bigliettini; minute croci, foglie, scarabocchi... poi improvvisamente risaltò ai suoi occhi un post scriptum : “P.S. Le risme erano tutte leggibili, i compagni ti ringraziano, Pietro sarà contento del nostro lavoro di domani.”
I circuiti elettrici di Geraldine lavoravano in modo frenetico - Le risme? Di cosa? Di carta? “Le risme erano leggibili”, carta ciclostilata forse... Ma certo! I compagni ringraziano Ernesto... Ernesto ha ciclostilato risme di carta per i “compagni” di Asti. E perché non ci sono altri riferimenti fra queste pagine ricordo? Non possono esserci riferimenti: le carte che scottano vengono distrutte. Ecco qual è il segreto: Ernesto e Linetta legati da un laccio politico eversivo... la data, qual è la data? 17/3/1974... cosa è accaduto il 18/3/1974, all'indomani di questo biglietto clandestino? - Geraldine aveva centrato il bersaglio con un intuito che non le era mai appartenuto in modo tanto prepotente, ma in quel momento non poteva ricordare, offuscata com'era dal suo sgomento, che in quella data a Catanzaro si sarebbe riaperto il processo a Pietro Valpreda per la strage a Milano nella sede della banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana.
L'Italia intera quel giorno fu coperta da volantini ciclostilati in decine di copisterie che di notte aprivano le porte all'anarchia, di giorno lavoravano per gli studenti e gli avvocati in doppiopetto. Il volantino a maggiore diffusione fu quello del Gruppo Anarchico Kronstadt “ Processo Valpreda Processo allo stato”.
Ernesto non l'aveva mai chiamata “Amore”, né mai un loro incontro era servito ad aprire l'anima e non le gambe; Geraldine non aveva alcuna idea politica, lei curava le sue unghie, i suoi capelli corvini, la sua figura altera avvezza al dressage , ma non si occupava dello Stato e della difesa della Costituzione. La libertà era legata alla propria individualità, non aveva mai percepito alcunché al di fuori del suo spazio vitale; le notizie del telegiornale l'annoiavano e aveva timore solo a sentir parlare di terrorismo.
Sapeva adesso, improvvisamente, di essere una donna inutile. Sapeva che Alfio voleva solo le sue labbra per dimostrare a se stesso una pur flebile potenza virile, Ernesto voleva solo la sua disponibile allegria per vincere la tensione di una vita che negli ultimi due anni doveva essere molto cambiata.
Sì, sapeva di essere una donna inutile: il mondo le ruotava intorno ed esplodevano ideali e lotte mentre lei si accorgeva con disappunto solo della macchia di caffè sul suo comodo sofà appena tappezzato...

Lasciò in fretta la casa di Ernesto e si rifugiò fra le sue pareti domestiche, no, non erano pareti sue ma di Alfio. Salì in camera, cercò fra i suoi libri un volume di quella raccolta di poesie francesi che era appartenuta al nonno e che teneva sempre vicino a sé, voleva
leggere una poesia che le era sempre piaciuta tanto e che aveva tradotto personalmente.
- Strano, - pensò - in un momento così drammatico sentire il bisogno di un contatto con le parole di una sconosciuta, Geraldine mia cara tu sei folle. -
La trovò presto, la lesse come si legge una preghiera:

POESIA DEL NON AMORE

Prometto di essere un uomo infelice
prometto di spegnere i miei sorrisi al loro fiorire
parlerò solo di battaglie e di tormento
scriverò pensando a te di anarchismo e di ideali
ti proverò che anch'io non temo la fine

Vincerò l'amore che nutro per i colori del sole
lascerò che il lessico tombale si impadronisca del mio essere
prometto di non aderire ai sogni
ho rinnegato già ogni amore
prometto di parlare di morte, tesoro
come tu desideri... se torni...

mi disarma la nostalgia dei nostri lamenti corali
prometto di morire nel modo che hai scelto per me
se è questo che vuoi da sempre
se questo è il prezzo che la notte ha decretato
perchè sia nutrito il nostro non amore

io cedo le armi a te, che manovri la mia anima
guidami tu al trapasso... sono già morto
hai spento i miei entusiasmi, mi hai condotto al loculo
finisci l'opera, concedimi il colpo di grazia.

Lea F. M.

Geraldine cominciò a bisbigliare a bassa voce una nenia fra sé e sé - Anche io posso riservare sorprese inedite. In fondo papà non mi vede, quella volta che ho tagliato la frangia ai capelli si è tanto adirato. Vorrei non averlo fatto, papà. Non accadrà più. Scusami se quando sono stata felice non ti ho mai detto che il merito era solo tuo; scusami, papà, se ho smesso di amare la tua adorata moglie, scusami se ho fatto sempre tardi e ti ho lasciato ad aspettarmi con la minestra fredda davanti ad un piatto che non t'invogliava più. Perdonami papà. Non voglio ricordare niente. È stato terribile quel viaggio in agosto, quelle pecorelle in campagna sono tutte morte perché avevano sete, papà, perché nessuno ha portato loro dell'acqua? La siccità è terribile in Sicilia. Troppo dolore. Troppo dolore. Troppo dolore, - poi ordinò ai muscoli del suo viso di ridere a crepapelle mentre faceva scorrere nella mano sinistra tutte le compresse di quel tubetto col rombo di colore rosso vermiglio che alcune volte aveva guardato con desiderio.
Ancora pochi minuti: quindi, lentamente, smise di ridere.
Ancora pochi ricordi – Papà, hai occhi bellissimi, non li vedo bene, ho tanto sonno. –
Quindi, lentamente, smise di respirare.

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Pubblicato il 9 dicembre 2008.

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