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Giovedì briscola

Capitolo dieci, di chinalski

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Giuseppe, subito dopo il fidanzamento con Assunta, aveva iniziato a organizzare il loro trasferimento a Roma e a prendere contatti con l'Università di Medicina. A fine agosto era tutto pronto: lui sarebbe andato a vivere da un anziano cugino della madre che l'avrebbe ospitato in casa, aveva inoltre trovato una bottega di un artigiano marmista dove sarebbe andato a lavorare per guadagnare qualcosa, magari anche da inviare alla famiglia. Aveva poi pensato ad Assunta: non intendeva lasciarla ad Avigliano da sola con la minaccia del fratello, e quindi l'avrebbe seguito a Roma. Avrebbe dormito a casa della sorella del padre, che viveva a Roma da anni con la famiglia, e anche lei avrebbe lavorato: i parenti le avevano trovato un posto come donna delle pulizie.
Finalmente a fine agosto Giuseppe e Assunta si trasferirono nella capitale. Il ragazzo era entusiasta: ora poteva fare ciò che gli interessava maggiormente: studiare medicina; e abitare a Roma lo stimolava tantissimo: anche senza potersi permettere di spendere soldi in divertimenti era comunque elettrizzato dalla cultura che poteva trovare gratuitamente visitando i monumenti, le biblioteche, per strada: finalmente si sentiva a proprio agio e circondato da gente con i suoi stessi interessi. Non altrettanto soddisfatta era Assunta: a parte le ore di lavoro, che la impegnavano anche mentalmente, il resto del tempo si annoiava: con Giuseppe stava bene, ma tra l'università, il lavoro e lo studio il suo fidanzato non poteva dedicarle molto tempo, e anche nei fine settimana spesso la lasciava sola in casa della zia a leggere e a scrivere lunghe lettere alla sorella Francesca.
Tornarono in Lucania per le feste di Natale e Assunta si accorse che Alberto si era inselvatichito, era diventato maleducato e si rifiutava di raccontare cosa facesse nel tempo che trascorreva fuori casa. Durante le due settimane che trascorse ad Avigliano, Assunta cercò di ricostruire il suo legame col fratello, ma senza risultati: oramai il ragazzo non accettava più la sua autorità di sorella maggiore e saggia, ma era solo più "una donna", come diceva Alberto con una smorfia. Cercò di parlare del problema con Francesca, che lavorava oramai stabilmente al bar, ma questa ne fu infastidita: non accettava di assumersi la responsabilità di dovere controllare maggiormente il fratello. La discussione si trasformò presto in litigio e Assunta si allontanò piangendo: era stato un errore lasciare i famigliari per seguire Giuseppe a Roma? Aveva oramai perso i legami con il fratello e la sorella? Si chiese se era così anche per Giuseppe, con i suoi famigliari, e si ripromise di parlargli dei suoi dubbi.

Giuseppe a casa trovò la situazione molto simile a come l'aveva lasciata: la famiglia era unita, i fratelli e le sorelle erano cresciuti, aiutavano in casa, facevano dei lavoretti e studiavano. Tutto era a posto, se si escludeva Luigi. Nessuno ne aveva più avuto notizia da tre o quattro mesi, e di lui non sapevano nulla tranne ciò che si diceva in paese e a Potenza, cioè che avesse una storia con Maria Berardi, la moglie del magistrato, e che le stesse spillando un mucchio di soldi.

Terminate le festività i due ragazzi tornarono a Roma, con sentimenti contrastanti. Giuseppe era contento che tutto fosse a posto in paese, oramai non considerava più Luigi parte della famiglia, ed era pronto a rituffarsi nello studio e nel lavoro. Assunta invece era combattuta: da un lato tornava con piacere nella capitale, poiché non si era sentita a suo agio a casa: le sembrava che ora che aveva visto altre città, altri luoghi non si sarebbe più potuta abituare a vivere nella piccola cittadina; d'altra parte si sentiva come di avere tradito i suoi famigliari, specialmente Alberto che era stato da lei abbandonato a sé stesso ed era entrato in chissà quali brutte compagnie.
Il tempo per loro comunque trascorse tranquillo fino alle festività di Pasqua, quando Assunta e Giuseppe avevano previsto un altro rientro in paese.

Erano rientrati da due giorni ad Avigliano, era il pomeriggio del lunedì di Pasquetta, Giuseppe era appena tornato da una passeggiata nei campi ed era a casa dei genitori, con il fratello Donato e le sorelle; Assunta invece era da sola in casa. Bussarono alla porta e lei andò ad aprire: era il fratello Alberto, affannato, sudato e tremante.
- Sei sola in casa? – chiese.
- Che cos'hai? Cosa è successo?
- Ti ho chiesto se sei sola in casa – disse alzando la voce.
- Sì, certo, vieni dentro.
Alberto dalla soglia si voltò a sinistra e fece un cenno; da dietro lo stipite balzò Luigi Brienza che spinse violentemente Assunta in casa, poi anche Alberto entrò e richiuse la porta. Assunta era rimasta senza fiato, non capiva cosa stesse accadendo e reagiva alla violenza con l'immobilità e il silenzio.
- Brava, non fare rumore, va bene così – disse Luigi. – Ora ti spiego cosa devi fare. Prendi questa, – allungò la mano verso Alberto, che gli porse una pistola che teneva in tasca, avvolta in un fazzoletto. Assunta rabbrividì alla vista dell'arma nelle mani del fratello – la porti dal tuo zito e gliela metti nel cassetto del comodino, senza farti vedere. Nient'altro, e in questo modo forse tuo frate non va in galera.
Lo sguardo di Assunta passava dal volto di Luigi, dai tratti irregolari, a quello di Alberto, ancora così infantile e con gli occhi spaventati e impauriti , ma nello stesso tempo con una luce cattiva negli occhi che lei non conosceva.
- Cos'è successo? – chiese nuovamente Assunta ad Alberto.
Rispose Luigi: - Niente è successo. Tuo frate è stato con te tutto il giorno, in casa, per la festa, e non è successo niente. Poi tu sei andata dal tu' zito con Alberto, fai due chiacchiere, lasci la pistola dove ti ho ordinato, e ritornate a casa insieme. Ah, una parola di tutta questa storia della pistola con qualcuno e tu Alberto non lo vedi più libero. Via, ora andate.
Luigi mise il fagotto in mano alla ragazza, la guardò con uno sguardo minaccioso e uscì di casa.
Assunta cercò ancora di farsi dire qualcosa da Alberto, ma questi sembrava muto. Uscirono poco dopo, e tutto andò come aveva comandato Luigi: quando erano di ritorno a casa, poco più di un'ora dopo, la pistola si trovava nel comodino di Giuseppe.

Il giorno dopo tutto il paese parlava del fatto di sangue. Gino Berardi, il magistrato, era stato trovato da un massaro in un campo non lontano dal paese, assassinato con un colpo di pistola in faccia. Sembra che avesse raggiunto il posto dell'assassinio a piedi, a seguito di una telefonata, secondo la testimonianza della moglie, per parlare con qualche conoscente, probabilmente. Era accaduto lunedì pomeriggio, e le indagini si erano subito orientate verso Giuseppe Brienza, poiché la polizia aveva trovato tra le carte del magistrato dei fogli relativi a una grossa somma che il magistrato aveva prestato al giovane studente. Venne perquisita la casa dei Brienza e, nel comodino del letto dove Giuseppe dormiva, ritrovarono la pistola che dopo gli accertamenti fu indicata senza alcun dubbio come l'arma del delitto.
Nessuno della famiglia dei Brienza e in paese poteva credere che Giuseppe potesse avere commesso il delitto: non era un violento, non sembrava avere motivi di odio verso il magistrato, a parte il prestito citato nei documenti, ma del quale nessuno aveva mai sentito parlare. Piuttosto il fratello, Luigi, era conosciuto e temuto da tutti: lui sì poteva essere l'assassino, era pure l'amante della moglie del magistrato, ma nessuno aveva le prove che potesse avere commesso il delitto. Il risultato, comunque, fu che Giuseppe venne arrestato.
Al processo Assunta testimoniò genericamente in favore del suo fidanzato: parlò della bontà d'animo del fidanzato, disse di non sapere che possedesse una pistola e avesse contratto un debito, che era andata a trovare i Brienza verso sera ma, specialmente, disse che Alberto aveva passato il pomeriggio di lunedì con lei, e non disse invece nulla della visita improvvisa di Alberto e di Luigi il giorno dell'omicidio, della pistola nascosta nel comodino di Giuseppe, dei suoi sospetti sul tipo di vita intrapresa dal proprio fratello.
Luigi raccontò di avere passato l'intero giorno di Pasquetta con dei suoi conoscenti, che confermarono la sua deposizione, mentre Maria Berardi negò di avere qualsiasi rapporto con Luigi che non fosse la semplice conoscenza di vista.
Giuseppe venne ritenuto colpevole nonostante lui continuasse a professarsi innocente. Dal modo in cui guardava il fratello Luigi si capiva che lo riteneva responsabile dell'omicidio ma non riusciva a capire in che modo potesse essere stato accusato lui, e non aveva idea di come avrebbe potuto spiegarlo a chi lo accusava. Il suo sguardo verso Assunta, invece, era allo stesso tempo amorevole e vergognoso: non aveva nessun dubbio sull'onestà della fidanzata e sulla sua estraneità ai fatti, e nello stesso tempo chiedeva anche a lei, timidamente, di non avere dubbi su di lui, di credere nella sua completa innocenza. Questa sua fiducia in lei non fece che accrescere il senso di colpa nella ragazza che era spesso preda di crisi di pianto ma, ugualmente, non riusciva a trovare il coraggio per confessare la vicenda in cui era stata coinvolta.
Al termine del processo Giuseppe venne condannato all'ergastolo e fu immediatamente trasferito a Roma, al carcere di Rebibbia.

Il processo si era concluso molto velocemente, e dopo poche settimane tutti considerarono risolta positivamente la questione con l'arresto del colpevole, anche se in paese avrebbero continuato a parlarne per anni e i dubbi in chi conosceva Giuseppe sarebbero rimasti a lungo. Assunta nel frattempo aveva deciso di non tornare a Roma da sola, iniziò quindi a lavorare ad Avigliano come donna delle pulizie in una casa di ricchi proprietari di terreni della zona.
Una sera, quando era in mezzo ai campi lungo la strada di ritorno a casa, le si parò di fronte Luigi, appoggiato a un albero. Era sola, non c'erano altre persone e venne assalita dalla paura ma non riuscì a evitarlo: era troppo vicina e se avesse corso via lui l'avrebbe sicuramente raggiunta, pur con le sue gambe corte. Provò a ostentare indifferenza verso l'uomo che temeva.
- Bel lavoro, – le disse – bel lavoro hai fatto in tribunale. Non una parola sulla pistola, pianti a dirotto come se eri addolorata, davvero un bel lavoro. E ora, finalmente, ti sei liberata di quel mezzo uomo, e puoi iniziare a vivere.
- L'ho fatto solo per Alberto. Ora dov'è?
- Alberto sta benone, non ti preoccupare per lui. Vieni qui, invece. – Luigi le si avvicinò con un balzo di predatore sulla preda e la strinse con un braccio. La ragazza iniziò a tremare, era senza parole per il terrore. Luigi le faceva male alle costole, la guardava con occhi e le parlava da due centimetri di distanza, con l'alito puzzolente di vino.
- È ora che metto la testa a posto, è ora che mi fidanzo. E anche tu devi fidanzarti con un vero uomo: con un uomo che ti insegna che cosa deve fare una donna, che ti sottomette, che gli fai da mangiare e tutto il resto. Ora che siamo ziti vieni qui, e fai la brava figliola, che non voglio che la polizia sa che il tuo Alberto ha sparato in faccia a un magistrato.
Luigi afferrò un seno di Assunta, facendola quasi svenire per il dolore, e la trascinò di peso in mezzo al campo, dietro a un cespuglio fiorito. Uscirono dal cespuglio dopo tre minuti, Assunta piangeva mentre Luigi la spingeva in strada.
- Mettiti in ordine, come vai in giro? Non vedi che sei tutta in disordine?
Assunta si mise a posto la gonna, si chiuse la camicetta con i pochi bottoni rimasti, si tolse l'erba di dosso mentre raggiungeva la stradina.
- Brava la mia zita, così mi piaci. Ora vai a casa, che il tuo Luigi quando vuole viene da te. – Le diede un viscido e puzzolente bacio in bocca, un forte schiaffo sul sedere e, ridendo sguaiatamente, si allontanò dalla ragazza.

Tre giorni dopo Luigi aveva ufficializzato il fidanzamento verso la famiglia di Assunta, e in breve in paese tutti erano a conoscenza del fidanzamento tra i due giovani. Gli aviglianesi compativano la ragazza, conoscendo il passato di Luigi, a Potenza, invece, sembravano già averne dimenticato i trascorsi.
- Quel Luigi è proprio un'ottima persona: s'è preso a casa l'Assunta anche se era stata disonorata dal frate.
- Chi lo diceva che Peppe Brienza avrebbe ucciso il Berardi! Sembrava così nu bravo guaglione, è proprio vero che non bisogna fidarsi delle apparenze.
- L'Assuntina è a posto ora con quel bravo ragazzo del Luigi: avrà cura di lei, non come il frate, che s'è fatto mettere in galera anche se era lo zito di una ragazza così bella.
Luigi non cambiò vita, semplicemente aggiunse una nuova donna da andare a trovare per soddisfare le sue voglie sessuali e per raccogliere soldi. Alberto seguiva le tracce di Luigi, non aveva lo stesso carisma ma, se possibile, aveva una dose di cattiveria ancora maggiore: era diventato l'esecutore materiale di quasi tutte le violenze progettate da Luigi, che si trovava così nella situazione di potere essere violento in prima persona solo per piacere personale, e non più per soldi. Assunta viveva rinchiusa in casa, uscendo solo per andare a lavorare e a comprare al mercato, e trascorreva il tempo cucinando, e pulendo la casa per Luigi, per i pochi momenti che voleva passare con lei. Invecchiava velocemente e dopo sei mesi non era più riconoscibile in lei la bella ragazza di poco tempo prima.
Le capitava di vedere pochissime volte Francesca, solo quando la sorella andava a trovarla a casa; non scriveva più lettere a Giuseppe, che invece continuava a implorarla di rispondergli in lettere che rimanevano non aperte. Alberto qualche volta tornava a casa con Luigi, e rimaneva a guardare in silenzio l'uomo che stuprava al sorella, fumando un sigaro e mangiando.
Assunta poi si ammalò: le venne una polmonite che non volle curare e morì: aveva ventun anni.

Luigi ci tenne a scrivere una lettera sgrammaticata al fratello in galera per informarlo che Assunta aveva fatto parte del suo folto gruppo di donne, che l'aveva soddisfatto pienamente, e che ora era morta. Impiegò poi pochi giorni per raccogliere tutti i soldi che poteva, dopodiché prese il treno con destinazione Torino.

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Pubblicato il 15 aprile 2009.

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