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Esercizi di omicidio, capitolo quattro

di Piero Fabbri

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Il leone verde sembrava guardarlo con compassionevole complicità.
Maestoso, gigantesco e triste, il felino di bronzo riempiva la rotonda piazza Denfert-Rochereau, e avrebbe dovuto trasmettere a chi lo guardava il senso della resistenza al nemico, ma l'intento eroico e militante cadeva nel vuoto, perché era impossibile non rimanere abbagliati dalla nostalgia ferina di quello sguardo. Forse era per il verde, colore estraneo alle intenzioni del monumento e dato solo dalle piogge acide e dagli ossidi della metropoli; forse perché la piazza non era altro che un continuo carosello di automobili frettolose e isteriche; forse solo perché un leone di guerra non può restare a guardare gli assalti del traffico metropolitano senza essere rattristato dall'assedio.
O forse il leone era in realtà uno specchio emozionale perfetto, che non faceva altro che riflettere con la sua mole fredda le stesse melanconie di chi lo guardava: la studentessa che correva sui tacchi verso boulevard Raspail, ad esempio, ne aveva l'immagine a carboncino catturata con ore di fatica nei larghi fogli bianchi, ora chiusi in una cartella mastodontica che ondeggiava allo stesso ritmo dei suoi capelli. Il fioraio che restava in piedi a stento tra la flora impacchettata e commerciale che invadeva il marciapiede del suo negozio forse stava cercando nella sua criniera l'ispirazione per una nuova composizione floreale, buona per quel matrimonio di sabato prossimo, magari, o forse anche solo per decorare il catering del barone, che doveva essere preparato per la sera stessa. E forse ognuno, su quella piazza, aveva in quel leone un aggancio mentale, un'attinenza privata in qualche modo legata ai suoi artigli, o al suo sguardo, o magari davvero alla resistenza degli alsaziani di Belfort e a loro colonnello che dava il nome alla piazza.
E sbagliavano tutti, naturalmente.
Alexandre lo sapeva benissimo, che sbagliavano tutti, perché era solo a lui che il leone stava parlando, adesso. Mentre la Renault metteva a dura prova il suo differenziale, piegando gli pneumatici in una curva stretta attorno al monumento, Alexandre sapeva tutto quel che c'era da sapere su quella piazza e su quello che il leone gli stava sussurrando. Mentre la sirena bitonale, urgente e noiosa al tempo stesso, della polizia metropolitana di Parigi suonava sterile sopra il tettuccio, lui sapeva. Con buona pace del governatore della città alsaziana che guidò la resistenza contro i tedeschi nel 1870, quella piazza era stata e restava sempre la Porta dell'Inferno, per i parigini. Ma siccome non era carino chiamare ufficialmente una piazza Place d'Enfer, lo spiritoso municipio aveva brillantemente saldato la serietà con la tradizione intitolandola al colonnello Denfert-Rochereau, cosicchè tutti potessero continuare a chiamarla Place d'Enfer senza sbagliare, anche se sulle targhe il "d'Enfer" era travestito da "Denfert". Un gioco di parole, un calembour inciso su marmo e sulle cartine toponomastiche della capitale francese: ma in fondo era necessario, perchè il leone stava davvero a guardia dell'inferno, e Alexandre lo sapeva benissimo.
Aveva appena dieci anni, quando suo padre lo portò a visitare le catacombe. Milioni di turisti arrivano ogni anno a Parigi, visitano ogni angolo della città, e scordano per intero la Parigi sotterranea. Quegli stessi turisti che religiosamente passano da una tomba all'altra con "oh!" di meraviglia, nei vialetti inghiaiati del Pere Lechaise, scordano i sei milioni di scheletri che dormono sotto il leone che fa la guardia alla Porta dell'Inferno. Da place Denfert-Rochereau si può iniziare un percorso oscuro sotto la Ville Lumiere: una città antica e inaspettata, ben più vecchia dell'asfalto che le fa da tetto. Costruita di corsa, in fretta, perché le fosse comuni che raccoglievano i milioni di morti della capitale francese erano sature, gonfie come ventri enfiati e putrescenti. Baroni e prostitute, ladri e artigiani, perfino regine, e rivoluzionari decollatori di regine, venivano messi uno sull'altro, in fretta, alla meno peggio, nel sottosuolo della città, prima che la città costruisse il suo inferno ben ordinato. E un bel giorno un oste, che era andato a spillare il vino in cantina, si era visto precipitare addosso il muro a cui si appoggiavano le sue botti. Non venne travolto e ucciso dai mattoni, ma l'immagine lo sconvolse per sempre: teschi, scheletri, calce viva, cadaveri ancora non compiutamente decomposti, effluvi, fuochi fatui, tutto precipitò nella sua cantina, che lui non sapeva essere confinante con una delle molte fosse comuni della Parigi vecchia. E il suo terrore, il suo schifo e raccapriccio divennero in breve lo schifo, il terrore e il raccapriccio di tutta la città, che in fretta organizzò e costruì il più grandioso trasferimento di cadaveri della storia. Da quelle malsane e putride fosse comuni alle catacombe squadrate sotto la Place d'Enfer. Sei milioni di ex-parigini trasferiti di corsa, per salvaguardare la salute dei parigini che ancora non erano ex, ma che lo sarebbero presto diventati, se non si sanava in fretta la situazione. E sotto la piazza dell'Inferno prese vita l'inferno ordinato, lineare, della città oscura. Con vie, strade, incroci, e perfino piccole piazze.
Così, il verde leone inacidito di Belfort non ricordava mai ad Alexandre la resistenza contro i prussiani - come avrebbe potuto? - ma sempre l'immagine dei morti inaspettati, imprevisti e maleducati, quelli che ti capitano tra capo e collo quando meno te lo aspetti. Quando magari hai solo intenzione di spillare un po' di Bordeaux, e loro ti arrivano davanti, prepotenti, putrescenti, senza chiederti permesso.
Proprio come questo morto maleducato, che si era fatto ammazzare alla Defense.

- Commissario, devo proprio tenerla accesa, la sirena? Siamo ancora lontanissimi, dalla Defense, se la teniamo sempre accesa arriveremo lì belli assordati.
Le mani dell'agente erano abilissime nel saltare dal cambio al volante, dal volante ai comandi, e a giudicare da come stava urlando il motore della Renault, anche i suoi piedi erano verosimilmente altrettanto veloci e indaffarati.
- Osservazione pertinente, Delacroix. Avrei la grossa tentazione di darti retta, se non fosse che hai violato la consegna, e quindi devi essere punito. Lascia la sirena accesa, continua ad andare verso la Defense, e ripeti con me, da bravo bambino. "Io non devo.?"
- Occristo, va bene, mi scusi, ma adesso non vorrà solo per questo.
- Ho detto ripetere, Delacroix. Niente scuse. "Io non devo.?"
- Ma via, le ho detto che.
- Agente Delacroix! Allora?
- Io non devo chiamare commissario il commissario. Io non devo chiamare commissario il commissario. Io non devo chiamare commissario il commissario. Per la miseria, va bene così?
- Benino. Eppure non dovrebbe essere difficile, no? In fondo, non sono ancora commissario, ma solo vice-commissario, che è poco più di ispettore-capo. Se fai fatica adesso, come farai a non chiamarmi commissario quando sarò davvero commissario?
- Perché, vuol dire che neanche allora, vorrà.
- Certo che no, Delacroix. Nessuno deve chiamarmi commissario. E questo a prescindere dal grado che porto sul tesserino.
Delacroix scalò due marce in un colpo solo, facendo ruggire il motore. Il non-commissario Alexandre finì con la faccia contro il poggiatesta per la violenta decelerazione, poi sbattè la tempia contro il finestrino quando l'automobile svoltò ancora più bruscamente a sinistra in uno stridìo di gomme, imboccando il Pont d'Iena. La sirena spiegata riuscì a malapena a coprire le sue imprecazioni sibilate tra i denti.
- Oh, mi scusi, signor più-che-ispettore-capo. Ma se dobbiamo fare in fretta, devo proprio.
- Zitto e guida, cretino. Tanto lo sai che me la paghi, prima o poi.

C'erano ancora un sacco di curiosi, fuori dal palazzo dell'EDF. Ma meno di quanti Alexandre se ne sarebbe aspettato; significava che era davvero molto tempo che lo stavano aspettando, se i passanti cominciavano a non trovare più interessante un tizio steso per terra e coperto da un lenzuolo bianco nel bel mezzo dell'Esplanade, con la Grand Arche a fare da quinte e sipario. Dietro il cordone degli agenti della Gendarmerie, c'erano solo il morto e due uomini in giacca e cravatta. Alexandre riconobbe subito Didier Duchassis, dell'IRCGN (Institut de Recherche Criminelle de la Gendarmerie Nationale). Da quando erano diventati famosi telefilm come CSI, NCIS e simili, si sentiva bello come Brad Pitt e importante quanto il padreterno, e non c'era furto di galline che non lo vedeva rapidissimamente comparire sulla scena del crimine; peccato che in realtà non somigliasse per niente a Brad Pitt (per non parlare del padreterno). L'altro personaggio, invece, non lo conosceva; ma non sarebbe rimasto troppo a lungo nell'ignoranza visto che gli si stava già facendo incontro, con sorriso stampato da politico in campagna elettorale e braccio teso e deciso come un guardalinee che denuncia un fuorigioco. Sapeva già che avrebbe avuto una stretta di mano maschia e vigorosa: quei tipi lì, quando ti stringono la mano, non ti stanno salutando: ti stanno dicendo che hanno tutta la potenza virile necessaria per fotterti, se ne avranno occasione e opportunità.

- Ma che piacere! Davvero, monsieur Duchassis, qui, mi stava giusto anticipando il suo arrivo, e quasi non gli credevo!
Oddio. Doveva aspettarselo, da Duchassis. Figuriamoci se perdeva l'occasione di fare il cretino a sue spese, quello. Di sicuro aveva già giocato con nome e grado e...
- Ma davvero, mi dica, davvero lei è il commissario Maigret? Ma è incredibile davvero! No no no, non neghi! Per chi mi prende, capisco certo che non sarà quello di Simenon, e diamine, certo che no, quella è letteratura, narrativa, e grazie al cielo ancora so distinguere tra finzione e realtà, non stia lì a ciondolare la testa, lo ho capito, sa, che non è lei quello con la pipa e dei telefilm! Ma è comunque una splendida coincidenza, commissario, davvero! Un segno del destino, un nomen-omen comunque strepitoso, no? Ah, incredibile, davvero incredibile!
Contare fino a dieci, mentre si minaccia di morte Duchassis con il solo uso di uno sguardo in tralice. Forse è meglio arrivare fino a venti, chè forse quest'ignoto imbecille è un tipo potente, e mandarlo subito a farsi fottere potrebbe essere controproducente per la carriera. Con calma, allora. Respiro profondo, sorriso finto, e spiegazione di rito.
- Oh incredibile sì, davvero incredibile - cominciò Alexandre - tanto incredibile che infatti non è vero. Un po' dispiace anche a me, sa? In effetti, sarebbe, nel vero senso del termine, un gran bel biglietto da visita da presentare al prossimo: "Commissario Maigret, Quai des Orfevrès 36, Paris". Ma non funziona, mi dispiace, niente nomen omen. Non sono né commissario né Maigret, capisce?
No, non capiva. Aveva l'espressione di un pesce palla scambiato per un pallone di calcio e sistemato sul dischetto del rigore. Il tizio alto era già quasi offeso, e il suo sguardo oscillava tra Alexandre e Duchassis come se l'avessero ferito nella carne viva. Uffa.
- Guardi - si mosse a pietà e continuò le spiegazioni - il fatto è che sono vice-commissario, e i vice-commissari di solito vengono chiamati commissari. Ma ciò non toglie che io commissario non sia, giusto? E questo è il primo pezzo. Poi, c'è l'altro fatto, e cioè che mi chiamo Magretti. Alexandre Magretti, di madre lionese e padre italiano. Tutti i cognomi italiani vengono di solito pronunciati alla francese, e io avrei dovuto essere chiamato Magrettì, come succede a tutti gli italiani qui da noi. Ma mio padre ci teneva, all'accento sulla "e", e lotto e brigò tutta una vita perché il cognome rimanesse pronunciato all'italiana. Un po' come Don Ameche, ce l'ha presente? L'attore italo americano che si chiamava Amici, e voleva salvare più la pronuncia che la grafia del suo cognome, e lo cambio da Amici a Ameche, perché gli americani lo pronunciassero giusto... beh, a lui andò male perché gli americani lo presero per francese, e così Don Ameche diventò "don-amèsc"; e a me andò peggio, perché l'accento sulla "e" alla fine rimase, ma solo facendo cadere il resto del cognome. Così il sottoscritto è stato sempre chiamato Magrè, fin dalle elementari: ecco perché il vice-commissario Magretti viene spesso chiamato commissario Magrè. Ha capito adesso? Non c'entro proprio, io, col commissario Maigret.
- Ah. Però poliziotto è poliziotto, vero?
- Oh. Sì. Beh, diamine certo che sì.
- E magari sta davvero al Commissariato Centrale, in Quai des Orfevrès 36?
- Beh, sì, ma da poco. E questo è in fondo solo un caso, e...
- Oh! Beh, a me basta e avanza, Maigret. Del resto, come vorrebbe essere chiamato, mi scusi? Vicecommissariomagrettì? Non sia ridicolo, suvvia. "Commissario Maigret" le sta benissimo, invece. Fossi in lei, prenderei in considerazione l'idea di comprarmi una pipa. E adesso basta, veda piuttosto di prendermi in fretta quest'assassino, d'accordo?
E girò sui tacchi, senza attendere risposta. Alexandre lo vide camminare a lunghi passi verso una berlina blu con vetri scuri e autista, e rimase imbambolato a vederlo sparire.
- Ma chi diavolo si crede di essere, 'sto spilungone rincretinito?
La domanda era rivolta più a sé stesso che a Duchassis, ma questi non perse l'occasione di rispondere:
- Ma dove vivi, mio caro Vicecommissariomagrettì? Non sai riconoscere il sindaco di Parigi, il quasi-certamente-prossimo presidente della Republique Française? - Duchassis sembrava davvero divertito dallo stupore disegnato sulla faccia di Alexandre.
- Quello? Il sindaco, quello? E che cavolo ci faceva qui sulla scena del crimine prima ancora che arrivasse la polizia, cioè io?
- Beh, la polizia non sei solo tu, Magrettì. E poi non lo sai che qui alla Defense abbiamo il più grande centro direzionale d'Europa? Era qui per caso, presenziava ad un meeting internazionale. E ha avuto la fortuna di vedersi servito dalla sua bella città un assassinio in diretta, praticamente sotto le finestre della sala dove stava per prendere la parola. Sembrava molto irritato dalla cosa, e si è calmato un po' solo quando ha scoperto che ad indagare sulla cosa stava arrivando nientepopodmeno che il Commissario Maigret.
- Va a farti fottere, Duchassis.
- Agli ordini commissario! Le dispiace se porto via con me il morto ammazzato? Sembra un'autopsia promettente, quella che dovrò far fare ai miei validi assistenti di laboratorio.
- Va a farti fottere, Duchassis. Odio le ripetizioni, ma talvolta sono necessarie. Visto che sei così entusiasta, cerca di farmi avere un rapporto preliminare entro sei ore, bien?
- Tutta la polizia scientifica di Francia lavorerà per te, commissario Maigret. Fra sei ore avrai il tuo rapporto. Non vedo l'ora di vederti sbranato dai giornali e dal futuro presidente della Repubblica.
Sparì anche lui, dentro una berlina appena meno lunga e lucida di quella del sindaco. C'era qualcosa di strano nella sua allegria: si stavano visceralmente antipatici, e quindi era in parte comprensibile che Duchassis godesse delle sue disgrazie, ma in fondo non era ancora detto che questo morto ammazzato non si tramutasse in un suo trionfo d'indagine giudiziaria, no?

Cinque ore e un quarto dopo, il rapporto preliminare era già sulla sua scrivania, e l'idea di una indagine rapida e trionfale svanì come un panetto di burro dentro una marmitta di spaghetti. Il morto aveva due pallottole in corpo, calibro 9 mm: una aveva fracassato lo sterno e aveva finito la corsa vicino alla colonna vertebrale, l'altra aveva trapassato un polmone e reciso diversi vasi sanguigni. Il latore delle pallottole aveva su di sè i documenti di riconoscimento e sembrava essere un tale Vinorov.
Alexandre prese il telefono, compose in fretta il numero del laboratorio dell'IRCGN, e sentì la voce di Duchassis all'altro capo prima ancora che terminasse il primo squillo.
- Ai suoi ordini, commissario Maigret!
- Sei un imbecille. Hai scoperto chi è questo morto, allora?
- Si chiama Vinorov.
- E questo lo hai scritto sul rapporto, va bene. Ma chi è 'sto Vinorov?
- Mio commissario, forse non si ricorda come funzionano le cose, fuori dai romanzi di Simenon. La scientifica cerca i pelucchi, le impronte, le caccole e le schifezze, mentre i geniali commissari e i loro ispettori fanno le ricerche tradizionali. Di questo monsieur Vinorov, a meno che lei non me lo porti da aprire con una bella incisione a Y su un tavolo di laboratorio, sarà assai difficile che io potrò mai dirle alcunché.
Imbecille. Antipatico e imbecille. E aveva ragione, pure. Il che lo rendeva ancora più antipatico, e certo non meno imbecille.
- Va bene, va bene, grazie tante per i consigli, Duchassis. Adesso puoi serenamente tornare a farti fot...
- Non trova curiosa la causa della morte, monsieur le commissarie?
- Due pallottole in petto? Cosa hanno di curioso?
- Oh, vedo che non ha ancora completato la lettura del rapporto. D'accordo, allora la lascio tranquilla...
- Duchassis, oggi me le hai fatte già girare abbastanza. Dì in fretta quello che hai da dire, che davvero non ho più pazienza per i giochi.
La voce all'altro capo divenne meno cerimoniosa e sferzante, tornò al tu, ma non abbandonò del tutto un leggero tono di maligna soddisfazione.
- Sentivo puzza d'aglio, Alexandre, già alla Defense. Una fottuta puzza d'aglio, e poi si vedeva benissimo che il morto aveva avuto un attacco di diarrea, prima di schiattare del tutto. Curioso, no, per un morto ammazzato di mattina... E insomma, per farla breve, ad ammazzarlo sono certo state le due pallottole da 9 millimetri , però...
- Però cosa?
- Però se non ci fossero state le pallottole, il nostro sarebbe rimasto stecchito lo stesso nel giro di un paio d'ore. Gli ho trovato in corpo abbastanza arsenico da ammazzare un vigoroso cinghiale.

 

Capitolo 5.

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