Logo ParolataPubblicato su www.parolata.it

 

Il paese ritrovato

Capitolo terzo

Utili Divertenti Letterarie Sparse Novità

I dolci pendii e i morbidi saliscendi della collina torinese avevano sempre rasserenato l'animo di Carlo, le rare volte che poteva permettersi il lusso di una mattinata in bicicletta. Aveva una vecchia Bianchi superleggera degli anni '70, cambio Campagnolo non sincronizzato, quasi un pezzo da museo, ormai che la tecnologia del Sol Levante aveva già conquistato anche il mondo delle due ruote. Ma lui era affezionato alla sua vecchia bici da corsa color verde acqua: aveva piazzato sul manubrio un ciclo computer, e adorava lanciarsi a settanta all'ora in discesa da Superga verso Chieri, dopo aver pagato lo scotto di quattro chilometri e mezzo di salita dura, pendenza media superiore al dieci per cento, dal Ponte di Sassi alla Basilica dello Juvarra. Attraversare velocemente le strade sottili costeggiate da mais e grano, punteggiate da ciliegi e qualche raro susino, ripagava ampiamente del mezzo litro di sudore versato durante la salita.

Ma era diverso, dannatamente diverso vedere quelle strade scivolare via dietro il finestrino d'una volante della polizia. L'odore di chiuso della macchina, il gracchiare continuo della radio di servizio, la velocità automobilistica, così indifferente alle pendenze del terreno, rendevano il paesaggio familiare alieno quanto un deserto marziano. Il suo amico commissario, seduto nel sedile anteriore, ringhiava consigli e ordini all'agente incaricato della guida. Lui, abbandonato e solitario nel sedile posteriore che di solito era occupato da delinquenti arrestati e testimoni reticenti, si sentiva un po' come un portochese che è riuscito ad intrufolarsi gratis in un teatro solo per scoprire che lo spettacolo che si recita è mortalmente noioso. - Che diavolo ci faccio, qui? - continuava a ripetersi, con la fronte incollata al finestrino.

Mentre il paesaggio che doveva essergli noto e familiare scivolava via asettico da sinistra a destra, Carlo vide in lontananza l'ultimo oltraggio: in un prato d'un verde splendente, anzi, proprio in quella piccola radura dove più volte aveva trascinato a spalla la bici per godersi un intero quarto d'ora di silenzio e assoluto riposo, adesso imperversava una babele di luci e rumori. Il suo prato era stato violato, circondato da incongrui nastri gialli appesi a tondini di ferro: circondavano forse duecento metri quadrati di terreno, all'interno del quale si muovevano alacri tecnici in camice bianco e brillavano luci fortissime, accese e dirette verso un buco nel terreno, nonostante il sole del pomeriggio inoltrato fosse ancora ben vivo. Lampeggianti biancazzurri ruotavano stanchi sui tetti delle auto della polizia ammucchiate nel prato come fossero reduci da uno strenuo inseguimento hollywoodiano, uno di quelli che finiscono sempre con centinaia di macchine bianconere accartocciate una sull'altra, mentre i cattivi continuano imperterriti la loro fuga verso il confine di Tijuana, Mexico.

Anche la loro macchina si sentì in dovere di mostrare l'appartenenza alle gloriose forze di polizia: con una derapata stretta, amplificata dalla poca ghiaia che gli pneumatici mordevano sul sentiero di campagna, l'agente alla guida inchiodò la vettura con un ultimo sobbalzo finale dietro le altre che erano già sul posto, mandando la tempia di Carlo a scontrarsi contro il poggiatesta del sedile anteriore. Carlo maledisse lentamente e consapevolmente il pilota, riservandosi di invitarlo a cena solo per il piacere di somministrargli un aperitivo a base di acido prussico, e scese dalla macchina con un sospiro di sollievo. Guardandosi lentamente intorno, si accorse che il commissario Marcon era già dentro il recinto delimitato dai nastri gialli, vicino alla fossa dove era stato rinvenuto il cadavere del vecchio. Attorno a lui, tre diverse divise militari: quelle di un paio di suoi uomini della Polizia Giudiziaria, quella tirata a lucido di un ufficiale dei carabinieri, e, del tutto a sorpresa, quella di un caporalmaggiore dei bersaglieri.

Mentre Carlo si apprestava a raggiungere controvoglia quell'accozzaglia di divise, notò che il maggiore dei carabinieri aveva cominciato una delle solite schermaglie con il suo amico commissario. Le parole "zona di competenza", "esplicito mandati di indagine" rimbalzavano dagli alamari dell'ufficiale alle tese del cappello del commissario, senza alcuna intenzione di essere recepite da una parte o dall'altra. Carlo si immaginò i soliti problemi di priorità e di competenza tra carabinieri e polizia, e decise di tenersi fuori dal raggio della conversazione; era pur sempre un borghese non autorizzato a frequentare una scena del delitto, e la sua presenza rischiava di mettere in imbarazzo Marcon. Con aria fintamente trasandata, girò intorno al gruppetto di persone, dette uno sguardo di sfuggita all'interno della fossa (che diamine ci troveranno di tanto interessante quelli della Scientifica, in un buco nel terreno?), e si ritrovò quasi per caso faccia a faccia col caporalmaggiore dei bersaglieri.

Aveva occhiaie profonde, che mal si adattavano al viso da ragazzino che denunciava senza pietà le venti primavere del militare. Ma Carlo non si sentiva pronto a rispondere neanche alle domande di graduato di truppa, quindi si decise ad interrogare per primo. La miglior difesa è l'attacco, dicono i proverbi e i presidenti americani.

- Che ci fa un militare come te, magari persino di leva, in un posto come questo? - chiese senza preavviso né gentilezza al bersagliere. Il piglio autoritario probabilmente toccò l'istinto di conservazione del soldatino, che senza rendersene conto si impettì, scattò inconsciamente sull'attenti, facendo ballonzolare in maniera ridicola il fiocchetto blu del fez d'ordinanza.
- Ordini superiori, signore! Ci hanno chiamati l'altra sera, poco dopo la scoperta, perché a causa della partita della Juventus mancava personale per presidiare l'area. Siamo di stanza a Chieri, non lontano da qui, e sembrava una cosa da poco, per questo ci hanno chiesto se per favore... -
- Riposo, riposo, caporale! - Carlo si pentì di essere stato così brusco - non avevo intenzione di riprenderti. E' solo che sembri stanco, e mi sembra davvero eccessivo tenerti ancora qui di guardia, se davvero sono già quasi ventiquattro ore che stai qui... -
- Sono già ventisei, a dire il vero, colonnello... -
- Ommadonna, promosso addirittura a colonnello - pensò Carlo - se questo povero cristo sapesse di star parlando con uno che si è fatto venti mesi di servizio civile... -
- ... ma la cosa è comprensibile... - continuò il bersagliere sospirando con un'espressione strana, a metà tra la stanchezza e l'orgoglio - Vede, sono stato proprio io a trovare il secondo cadavere, quello della ragazza, proprio alla fine del mio turno di turno di guardia. E allora capirà, colonnello, quante dichiarazioni e deposizioni ho dovuto dare da quel momento... -

Carlo strabuzzò gli occhi, e guardò fisso il ragazzo. Un altro cadavere? Ma dove diavolo erano finiti, nel Bronx dei film di gangster anni Trenta? Fece per chiedere qualcosa al ragazzo, poi richiuse sconsolato la bocca. Guardò in tralice Marcon, che sembrava ingobbito sotto il peso del trench e sotto il peso delle parole dei suoi uomini che lo stavano probabilmente aggiornando sugli ultimi sviluppi. Tornò a fissare il caporalmaggiore, cercando qualcosa da dirgli, una scusa per accomiatarsi, magari anche un complimento per quel ragazzino bruno che non dormiva da quasi quarantotto ore.

- Non sono colonnello - fu però l'unica cosa che riuscì a dire.

 

Capitolo quarto

Parolata.it è a cura di Carlo Cinato.
Creative Commons License La Parolata e i suoi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons.