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Il paese ritrovato

Capitolo decimo

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Torino Esposizioni significa soprattutto il Palazzo del Lavoro. Un parallelepipedo netto e deciso, senza l'ombra di un fregio all'esterno, ma che la struttura in cemento armato di Pier Luigi Nervi rendeva comunque rivoluzionario, ai tempi della sua progettazione. Grossi pilastri ad ombrello, interni, sostengono tutta la struttura, cosicché le pareti esterne "scendono" dall'alto verso il basso, anziché "salire" dal basso verso l'alto come fanno tutte le pareti del mondo. Ma questo era solo un piccolo segreto della statica, niente affatto evidente al turista distratto che osserva il Palazzo mentre risale il lungopo a cinquanta chilometri all'ora. E non era affatto evidente neanche a Carlo e al commissario Marcon, anche se adesso stavano varcando proprio le porte di quel Palazzo per andare a curiosare dentro "Torino Arcana 2003 - Magie del Terzo Millennio", una strana esposizione a metà tra la convention e la mostra-mercato dell'esoterico.

Carlo strabuzzò gli occhi, quando alla biglietteria una ventenne in tailleur blu aviazione gli disse sorridendo che non poteva entrare, che l'evento era riservato ai professionisti del settore, e non era aperto al pubblico. Quali potevano essere, "i professionisti del settore"? Stava già per replicare infastidito, quando vide gli occhi della hostess sgranarsi di fronte al tesserino ministeriale che Marcon le agitava sotto il naso.
- Noi siamo professionisti di tutti i settori, bamboletta - bofonchiò ingoiando l'ultimo pezzo di cono gelato - e tu hai appena perso l'occasione di vendere due biglietti, perché se ti faccio vedere il tesserino ti tocca farci entrare gratis.
La bamboletta avvampò, deglutì a vuoto un paio di volte, e si guardò intorno alla ricerca di qualcuno che potesse toglierla dall'imbarazzo. Ma era l'una del pomeriggio, e tutti i suoi colleghi e superiori stavano addentando panini e cotolette. Guardò infine di nuovo negli occhi Marcon, intimidita, mentre con la mano sinistra giocherellava nervosamente accarezzandosi il fiocco di tulle che aveva al posto della cravatta.
- Io... io credo di dovervi comunque compilare il badge di riconoscimento, signore. Si sono tanto raccomandati, e forse voi siete esentati anche da questa formalità, certo lo sarete, però ecco...
Non terminò la frase, ma aveva già in mano un grosso pennarello nero e due piccoli rettangoli di cartoncino. Carlo si guardò in giro, e vide che tutti i presenti avevano un cartellino di riconoscimento attaccato al bavero della giacca o della camicia. Nonostante il caldo, riuscì anche a vedere un vecchio ultraottantenne girare imbacuccato in un pastrano da alpino della seconda guerra mondiale. Anche lui aveva il cartoncino identificativo, vergato in bella calligrafia femminile, che recitava "Gen. Arturo Nascimbeni". L'hostess attendeva impacciata, mentre il pratico Marcon si era già appeso il suo cartellino al bavero del trench. Capì che attendeva solo di avere un suo documento di riconoscimento e, quasi con imbarazzo, le allungò sul bancone la carta di identità. Scaduta da quattordici mesi, ma alla ragazza non interessava davvero.

Varcarono i cancellini contapersone, e furono finalmente all'interno.
- E' un po' come scendere all'inferno, vero Marcon? Io mi sento come Ulisse durante la sua discesa nell'ade, e tu?
- Ulisse chi?
- Lascia perdere. Volevo essere spiritoso, ma non è la mia giornata. Allora, sei sicuro che abbiamo fatto bene a venire in questa gabbia di matti?
Marcon camminava veloce, ma guardando attentamente ogni dettaglio della variegata umanità all'interno dell'esposizione. Stand innocui di venditori di teschi di plastica e di tarocchi, ragazzine vestite da streghe sui trampoli, uomini vecchissimi nascosti dietro barbe grigie, e decine di stand pieni di gente che parlava, parlava, parlava.
- E che vuoi che ne sappia? Hai cominciato tu, a farmi venire idee strane sulla stregoneria, e mi sembrava giusto approfittare di questa convention che, guarda caso, si svolge proprio a Torino, e proprio di questi tempi. Alla peggio, avremo perso un paio d'ore.
- Sarò pure stato io il primo a parlarne, d'accordo, ma a te la cosa è andata subito a genio, vero? Anche se hai scoperto che ad ammazzare il vecchio sarà stato qualche povero disgraziato stanco di pagargli interessi del trecento per cento al mese, la tua testa giocherella sempre con streghe e fantasmi, vero?
- Cos'hai oggi, Carlo, sei nervoso? Sei acido quanto la panna acida andata a male. Vuoi che riconosca ufficialmente che sto perdendo tempo? Che ammetta, magari anche di fronte ai miei superiori, che sto titillando ancora l'ipotesi paranormale che un imbecille di compagno di scuola mi ha ventilato all'orecchio giorni fa? O vuoi solo godere nel vedermi passare sotto le forche caudine dell'imbarazzo, e farmi ammettere che non so ancora quali pesci prendere?
- Uh. Sempre imprevedibile, tu. Prima fai finta di non riconoscere Ulisse, e adesso citi le forche caudine delle guerre sannitiche. Bah, non so mica chi tra noi sia più imbarazzato, alla fine. Perché sei stato tu a dirmi che il vecchio era un usuraio, e allora non vedo perché continuare con questa idea scema delle streghe.
- Già, adesso sono io, il grasso commissario Marcon, a fare la figura del lunatico, eh? Carlo, guarda che io ho detto solo che il vecchio prestava i soldi a strozzo, e quindi che si apriva anche la pista dei clienti disperati. In centrale stanno spulciando duecentocinquanta nomi di poveri cristi che frequentavano quel lurido magazzino del vecchio. Non ho detto che il caso sia risolto. Figurati. E poi ti ho già detto che adesso non sono in servizio, e questo non cambia neanche se ho dovuto far vedere il tesserino da sbirro alla bamboletta all'ingresso. Ti ricordi? Tu non ti interessi di niente, per conto mio; e io sto svagandomi due ore prima di dormirne tre, visto che stasera devo restare di guardia in Centrale tutta la notte.
Carlo squadrò perplesso l'amico. Continuava a camminare e a guardarsi in giro come un vecchio cane da caccia che ha perso la pista olfattiva della preda.
- Okay, okay. Non stiamo cercando niente, io sono qui per caso e tu sei fuori servizio. Però, tanto per fare due chiacchiere tra amici, dimmi un po'... ti piacerebbe trovare qualcosa di preciso, qua dentro?
- Ah, se è per quello - ringhiò il commissario - mi basterebbe trovare il numero di telefono di quella strega che balla su quel cubo. - indicò una ragazza nera alta quasi due metri, vestita di un lungo abito nero che come per magia continua ad aprirsi e a chiudersi accordato al ritmo della danza della fanciulla, grazie a degli strategici spacchi abissali che andavano dalle ascelle ai polpacci - Ma figurati se una così si accorge di me, a meno che io non mi spacci per uno del controllo immigrati. Ma mi contenterei anche di altro, no? In dieci minuti, ad esempio, ho già visto almeno dodici stand con la foto di Rol, e nel programma odierno ci sono due conferenze su di lui. E Rol lo abbiamo già incontrato a Sciolze, in un certo senso, no?
- Che c'entra, dai... di Rol se ne parla ovunque, esce un libro alla settimana su di lui, figurati se qua dentro non lo si venda come il pane...
- Questa è un'altra osservazione che non ti fa onore, Carlo. Non hai ancora notato che in questa "mostra-mercato" nessuno vende e nessuno compra? Ci sono stand e merce esposta, ma che io possa finire stecchito e fulminato se ho visto una sola cassa in funzione. Parlano tutti, qua dentro. Parlano e basta, proprio come te e me.
Aggrottando le ciglia, Carlo si guardò meglio in giro per cercare di trovare di che contraddire l'amico, ma Marcon aveva ragione. Erano pochissimi gli stand dove si vedeva una cassa, e anche in quelli era assolutamente inattiva, non presidiata. Di certo, non si vedeva un euro cambiare di mano neanche a cercarlo col lanternino.

- Gran parlatori, questi esoterici - riprese il poliziotto - e si salutano tutti l'un l'altro, sembra davvero che si conoscano tutti. Siamo finiti dentro una grande famiglia.
- Beh, però questo non significa...
- Lo so anche io che "non significa", cosa credi? Magari c'e' solo un gran spirito di corpo, magari si conoscono davvero tutti, alla fin fine maghi e streghe non saranno mica milioni, in Italia - guardò di sottecchi l'amico - A proposito, sai cosa ho scoperto, su un libercolo trovato sulle bancarelle di Corso Siccardi? Che attorno all'anno mille, in Val di Susa, c'era una setta di eretici cattivissimi, che il popolino chiamava "La prole di Lucifero". Seminavano il terrore nella valle, rubavano ammazzavano e stupravano. Ed erano quasi imprendibili, perché nessuno conosceva il luogo dove si nascondessero.
Carlo guardò l'amico con aria interrogativa, senza interromperlo. E Marcon continuò.
- Ci misero sette anni, per scovarli e massacrarli tutti, dal primo all'ultimo. Erano solo un paio di dozzine, tra uomini e donne, ma li acchiapparono solo grazie al più classico degli stratagemmi. Misero una grossa taglia sulla loro testa, e uno di loro tradì. Il traditore fu riverito e protetto dai feudatari del luogo, un po' come i "pentiti" di oggi, no? Eppure... eppure non se la cavò neppure lui. Anche se tutta la setta sembrava essere stata sterminata, qualcuno era probabilmente riuscito a scappare. Questo qualcuno trovò il giuda, e lo ammazzò.
- E come si fa ad essere sicuri che sia stato scannato proprio da un sopravvissuto della setta?
- Perché non fu scannato, amico mio. Fu fatto fuori secondo un preciso rituale. Guarda caso, proprio secondo quel rituale che il traditore stesso aveva descritto e raccontato ai suoi protettori durante la sua ampia e dettagliata confessione. Ai peggiori nemici, la "prole di Lucifero" riservava un trattamento di tutto riguardo. Mettevano il disgraziato dentro una completa armatura da battaglia, e poi lo mettevano a scaldarsi un po' sulla graticola. Ma non fino ad ammazzarlo, no... il condannato doveva solo soffrire le pene dell'inferno per tre giorni, e loro stavano attenti: smettevano di cuocerlo quando la graticola rischiava di farlo diventare duro e cotto come una porcellana capodimonte. Dopo i tre giorni di delizie, lo portavano in una cella, sempre con l'armatura indosso. Inchiodavano l'armatura a terra, e gli toglievano solo il collare di ferro, liberando solo la gola; gli lasciavano addosso tutto il resto della ferraglia, elmo e celata compresi. Poi spalmavano di latte e miele il collo ustionato del poveretto, e lo lasciavano lì, per terra.
- A morire di fame e sete?
- Oh, no! Prima di lasciare la cella, uno di loro aveva l'accortezza di liberare tre ratti, tenuti rigorosamente a digiuno per tutti i tre giorni di tortura, dentro la cella a far compagnia alla vittima.
- Cristo! - Carlo soffocò un conato di vomito - vuoi dire che i topi...
- Già, già... una forma laboriosa, ma in un certo senso automatica, di decapitazione, non trovi?
- Fottiti, commissario! - esplose Carlo irritato - che bisogno c'era di raccontarmi certe schifezze, si può sapere? Ti sei dato all'horror, ultimamente? Che schifo, cristo, che schifo...

Si interruppe improvvisamente, divenne serio e attento, e guardò esterrefatto l'amico:
- Mio dio, i tre ratti sul collo, lo strangolamento con la treccia fatta con i tre mouse, vuoi dire che...?
- Adesso sei tu che corri troppo, Carlo. Però, insomma... che ratti e mouse siano parenti l'ho pensato anch'io, per quel poco che può significare. E anche per questo due ore fuori servizio ce le passo volentieri qua dentro, che ne dici? E' anche pieno di bellissime ragazze, 'sto posto, guarda che roba... i maschi sono solo vecchi e barbogi, e le femmine sono quasi tutte ragazze bellissime con le gambe di fuori. Lì c'e' addirittura un palco con sei o sette fanciulle che non sfigurerebbero in televisione...

Carlo non seguì subito lo sguardo dell'amico, ancora sconvolto dalla visione della spietata esecuzione medievale e dalla sua possibile relazione con l'omicidio dello strozzino. Aveva la testa piena di immagini truculente, di suoni e odori antichi, di orrori millenari che ancora tornavano a ghignare nel presente, e quasi perse la cognizione del luogo dove si trovava. Girava la testa inerte, in quello spazio pieno e rumoroso, vedeva gente sorridere e sbraitare, capannelli di vecchi attorno ad improbabili sfere divinatorie di cristallo, quarantenni appesantite dal trucco e dal fondotinta far scivolare unghie lunghe e laccate su pentacoli e carte da iniziati. Si sorprese a riconoscere, nello sproloquio d'un gigante vestito da frate francescano che arringava una piccola folla dall'alto d'una cassetta di legno, alcune delle più note Centurie di Nostradamus, riscritte e recitate in pulitissimi versi giambici, cretici, e perfino distici elegiaci. L'immagine del frate gli restò impressa, e quasi lo svegliò dalla catarsi causata dal racconto della decapitazione della Val di Susa, perché gli occhi del frate avevano sguardo profondo, e perché il frate era anche il primo maschio non troppo vecchio che vedeva lì dentro. Una strana osmosi tra sogno e realtà fu provocata da quella vista: vestito da frate, come un pellegrino romeo diretto all'Urbe o a Santiago di Compostela, quel tizio gli rendeva reale l'incubo medievale: ma al tempo stesso lo riconduceva al presente, perché Carlo lo distingueva bene, alto e maestoso, stagliarsi non contro il coro d'una cattedrale, ma ben inserito nella realtà del Palazzo del Lavoro. E quei versi erano folli e antichi, ma ben composti e ritmati, e amplificati da microfoni moderni; cantati in un latino quasi dottorale, ma stonavano nella babele di suoni di quella folle convention che, indubbiamente, era reale e avveniva in pieno ventunesimo secolo.

Si girò alla ricerca di Marcon, con l'intenzione di avvertirlo che voleva fermarsi un attimo a sentire quello strano personaggio. Vide l'amico ad una decina di metri di distanza, sotto il palco in cui le sei o sette ragazze in miniabito stavano ancora accennando una danza che pretendeva di essere celtica, ma risultava alla fine essere assai poco druidica e decisamente erotica. Aveva fretta di andare ad ascoltare il frate e i suoi versi, e di malavoglia si apprestò a superare la breve distanza che lo separava dall'amico.
E fu come vivere la scena di un film, al rallentatore.

Il primo passo fu accompagnato solo da immagini neutre, catalogate senza fatica dal cervello: la danza morbida delle ragazze, la schiena di Marcon infagottata nel vecchio trench, perfino il poster incongruo e sbiadito d'una famosa agenzia torinese di viaggi, che in quell'ambiente amante del buio e delle tenebre continuava a proporre l'immagine rigogliosamente solare d'un bungalow a palafitta su una bianchissima spiaggia caraibica.

Il secondo passo ritmò il suo divertito apprezzamento delle forme delle danzatrici, come se solo adesso, con colpevole ritardo, Carlo si fosse ricordato dell'ultima frase dell'amico, che lo esortava a bearsi delle ridotte vesti delle ragazze.

Poi, fu un'accelerazione decisa e continua. Già al terzo passo un angolo della sua mente si ribellò, facendogli notare qualcosa di strano. Ancora un passo, e Carlo sentì un tuffo al cuore, riconoscendo la corta tunica che tutte le ragazze del palco indossavano. A metà della distanza dall'amico commissario, aveva quasi voglia di correre, e urlargli "Marcon! Hanno tutte indosso la greca della ragazza di Sciolze!", ma si trattenne, il commissario stava parlando con qualcuno, non poteva urlare. Un sesto passo veloce, un settimo mentre guardava le ragazze con occhi spiritati e analitici, mentre il suo cervello comunque registrava l'imbarazzo delle ragazze, certo abituate a farsi guardare le gambe, ma non con occhi così accesi e eccitati.

Allungò il braccio, ormai quasi alla portata della spalla di Marcon, mentre gli ultimi passi erano affrettati e imprudenti, ormai quasi una corsa. Prima che l'ultimo toccasse il pavimento, aveva già strattonato l'amico e cominciato a parlare.
- Ma per la miseria, hai visto...

Vide finalmente l'interlocutore del commissario, e ammutolì.

Orsolina. Orsolina nella sua greca comprata alla Galleria Subalpina. Orsolina vestita come le ragazze sul palco, Orsolina con le guance rosse d'imbarazzo e paura, Orsolina che stamattina lo aveva salutato con un bacio fugace, spiegandogli che sarebbe stata via da Torino per due giorni, per cause di lavoro. Orsolina, bellissima e terrorizzata. Terrorizzata da lui.

Non riuscì a parlare. La guardava stupito e sorpreso, forse ferito. Guardava la moglie e non sapeva interrogarla, non sapeva se attendere che fosse lei a parlare. Non sentiva il suo respiro fluire, era sospeso e bloccato nel tempo come le sue domande.

- Non posso crederci! - Carlo sentì la voce, e ridicolmente si chiese se fosse stato lui a parlare, se quello che voleva dire si fosse davvero coagulato in una frase così cretina, prima di rendersi conto che la voce che tuonava non era la sua. Perché risuonò ancora, con la medesima frase e intonazione, accompagnata anche da una violenta manata sulla spalla.
- Non posso crederci! Davvero, non posso crederci! Sei davvero tu il Carlo WebDec che conosco?
Carlo sentì la rabbia montargli in corpo. Chi cristo era questo, adesso? Che voleva adesso, qui, ora, in uno dei momenti più critici della sua vita? Si voltò quasi schiumante di rabbia, con voce arrochita e furibonda, strappandosi di dosso la mano sconosciuta che ancora gli stringeva la spalla.
- Senti, tu! - cominciò. Il suo dito indice era già puntato dritto in faccia allo sconosciuto, ed era carico di minacce. Ma poi Carlo vide nello sconosciuto il misterioso frate che recitava versi in latino, e di nuovo non capì. Vide il frate che sorrideva gioviale e davvero entusiasta, mentre il suo dito grassoccio indicava trionfante il cartellino identificativo di Carlo, dove la bamboletta aveva scritto poco prima il suo nome e cognome. Il frate indicava e rideva, e pretendeva attenzione ed entusiasmo, ma Carlo ancora non capiva, Carlo sentiva ancora la presenza di Orsolina dietro di lui, voleva al più presto tornare a guardarla.

Poi, finalmente, capì. La mano larga dell'uomo vestito da frate gli stava ripetutamente indicando il proprio cartellino, appuntato con una antica spilla da balia sul saio. "Guarda, guarda!", sentiva ripetere, e finalmente si decise a leggere il nome.

Fabrizio Pieri.

E Carlo non svenne solo perché non sapeva come si fa. Al centro geometrico d'un triangolo emotivo, con il commissario alla sinistra, il suo misterioso amico, finalmente conosciuto, di fronte, con la sua moglie forse anche più misteriosa e certamente bugiarda alle spalle. Si sentì stanco, e, ridicolmente, chiese solo se qualcuno poteva portargli una sedia dove sedersi.

E mentre Fabrizio parlava, mentre Orsolina cercava sempre di essere solo ai margini del suo campo visivo, mentre Marcon ritornava con una sedia che solo dio sapeva come era riuscito a trovare, Carlo assaporò la confusione e la stanchezza. Sentì l'amico commissario dirgli di starsene buono per un po', chiedergli se voleva un bicchiere d'acqua, di non fare tragedie perché davvero non c'era in corso nessuna tragedia. Sentì tutto questo, e si sentì un po' più tranquillo. Marcon aveva ragione, stava facendo un dramma di nulla, o quasi. Si lasciò cullare dal borbottio continuo e rassicurante della voce dell'amico, che copriva il brusio della convention, copriva le sua ansie, copriva anche le sue paure.

Soprattutto, ma questo Carlo non poteva saperlo, coprì anche il sibilo veloce e repentino con il quale Fabrizio Pieri sussurrò all'orecchio di Orsolina:

- Niente panico, Lupa. Lascia fare a me, adesso.

 

Capitolo undicesimo

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