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Il paese ritrovato

Capitolo quindicesimo

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Lo schiaffo arrivò violento e cattivo. Pesante, con il braccio intero a concludere un ampio arco nell'aria. Non voleva essere un gesto di sfida, un'offesa simbolica: era uno schiaffo che voleva solo arrivare, colpire, fare male. La testa di Orsolina fu ruotata di novanta gradi, quasi fosse indipendente dal resto del corpo. Stava in piedi di fronte a Marcon, con gli occhi spenti e le spalle incurvate. Quasi fosse il disegno stantio di una maiolica dozzinale, non emise un gemito e, lentamente, tornò a girare la testa, fissando ancora gli occhi senza luce in quelli di Marcon.

Piantati nel centro esatto del soggiorno dell'appartamento di Carlo e Orsolina, dell'appartamento che non era più di Carlo, anzi, perché lui era ormai libero da sciocchezze quali il possesso, i due tacevano e si guardavano. Marcon alzò di nuovo il braccio, e tutto il suo corpo sembrava vibrare in attesa di sferrare un secondo violento ceffone. Gli occhi e le spalle di Orsolina restarono spenti e immobili, quasi non avessero registrato neanche il primo colpo. Il segno rosso vivo d'una larga mano era disegnato sulla sua guancia, unico residuo dell'esplosione di violenza.

Violenza, violenza, violenza. Marcon la sentiva ovunque, anche dentro il suo braccio ancora alzato, ancora in attesa di colpire. Ne vedeva gli effetti nella stanza, dove sembrava quasi che gli oggetti, i soprammobili, i mobili, si fossero in qualche modo accorti della tragedia. Aveva passato serate allegre e divertenti proprio lì, in quel soggiorno, che adesso per qualche ragione sembrava spoglio e deserto, senza colore. Una tebaide improvvisa e inaspettata, là dove fino a ieri riconosceva un luogo familiare e accogliente. Un posto sconosciuto con lui straniero e estraneo, con il braccio ancora levato in alto, fermato nel tempo, a renderlo una pessima copia, maschile, viva e provinciale, della Statua della Libertà.

E allora si sentì ridicolo.

Non aveva addosso il suo trench. Non stava masticando o inghiottendo nulla. Era solo in maniche di camicia, sciatto come al solito, ma d'una sciatteria autentica e personale. Orsolina lo guardava, e forse lo stava anche vedendo, con quegli occhi spenti. O forse no. Orsolina, bella anche nella disperazione e nella tragedia. Bella anche senza luce negli occhi. ò di scatto, andò alla finestra, la aprì e si appoggiò al davanzale. Aveva bisogno di aria nuova, di aria fresca. Ne aveva sempre bisogno, dopo aver passato anche solo pochi minuti in una sala mortuaria; l'odore della morte gli arrivava subito fino alla base del naso, gli si ancorava stretto alla pituitaria, e ne usciva poi solo a fatica. Si sporse il più possibile verso l'esterno, si sforzò di guardare fuori, di osservare il mondo e la vita: oltre all'odore, doveva anche cancellare dalla memoria delle sue retine il corpo nudo e decapitato di Carlo, sul marmo bianco e algido dell'obitorio.

Primavera ormai iniziata, dicevano il calendario e i vestiti della gente per strada. La vita scorreva liquida e immutata, giù nella città. Eleganti signore che lasciavano ticchettare veloci i tacchi sottili sul marciapiede, con sguardo rivolto costantemente alle vetrine; ragazzi che orbitavano uno attorno all'altro come molecole scaldate dal fuoco della gioventù, urlandosi insulti scherzosi e innovative sconcezze. Nel marciapiede di fronte, una vasta area del muro dell'edificio opposto era diventato il laboratorio artistico di una coppia di giovani e decisi pittori di murales. Avevano almeno dieci metri di intonaco vergine, delimitati a destra dal manifesto ormai vecchio che annunciava per l'appena trascorso inverno il grandioso raduno nazionale degli alpini, e a sinistra da una nuovissima pubblicità foriera d'estate, in cui una modella in tanga si lasciava spalmare di crema da un rotondo ammiratore in camicia hawaiana e bermuda rossofioriti. Tra l'inverno e l'estate, dieci metri di muro nudo, che i due ragazzi stavano ora usando come sostegno e supporto per le loro fantasie. Con spruzzi leggeri e ancora non definitivi, i due estraevano da una bomboletta spray una vernice grigio chiaro, che abbozzava solo il disegno a venire. Uno a destra, l'altro a sinistra, stavano già delineando la sinopia d'un'opera misteriosa e duplice, che completavano a memoria, senza bisogno di consultarsi. Lo schema, che prendeva forma e prometteva solo in seguito di riempirsi con i colori vivaci di tutti i disegni murali, gli ricordava il suo mestiere: un'indagine è così che dovrebbe fluire... riempiendo di significato la traccia flebile e grigia dei primi indizi. E il detective dovrebbe restare sempre fuori dal disegno, come quei due ragazzi restavano sul marciapiede, senza entrare nella storia dipinta da loro stessi sul muro. Solo analisi e azioni spicce e risolutrici, questo deve fare un poliziotto: senza lasciarsi ingannare dai bizantinismi della vita e della testa degli uomini, seguendo come un imperturbabile angelo vendicatore le poche regole che servono a ricostruire un delitto. Delitto, movente, colpevole; non era sempre facile ricostruire la piccola triade che giace sotto ogni crimine, ma non bisogna per questo mai uscire dall'ipotesi base della semplicità: era il rasoio di Occam del poliziotto perfetto. E lui aveva sempre diligentemente seguito questi fondamentali principi: la ballerina brasiliana di tre anni prima, che sembrava immolata in un misterioso sabba in onore di un dio della tradizione carioca? Solo una storia di prostituzione e sfruttamento, si era infine scoperto... Il caso del docente di Palazzo Nuovo che pubblicava in rete elaborati versi alessandrini in greco antico, trovato scannato in uno scantinato della Falchera? Solo un pedofilo fantasioso e imprudente, che nascondeva dietro le poesie centinaia di adescatrici pagine web e migliaia di foto schifose. Sentì una fitta nuova al fianco, a ripensarci: era stato proprio Carlo, a trovare il bandolo della matassa, in quella schifezza d'indagine.

Ma stavolta no, non aveva seguito questo rigore naturale, questa volta... lui era entrato a dirompere la trama, lui aveva chiamato Carlo, all'inizio di tutto, lui aveva inventato e gestito quella giornata al Palazzo del Lavoro. Lui, in pratica, aveva staccato a morsi la testa di Carlo, lasciando poi il cadavere mutilato sul tavolo dell'istituto di Medicina Legale. Aveva voluto entrare nella storia, e l'aveva tragicamente cambiata.

Il commissario restò a guardare il murale prendere forma per interi minuti, fino a riconoscere nei getti di vernice lo scimmiottare di tratti di Guernica, e uno slogan di protesta contro i lavori sul Treno ad Alta Velocità. Rubò ancora un po' di profumo alle prime foglie dei tigli, e si girò di nuovo verso l'interno della stanza.

Orsolina non si era mossa.

Orsolina, l'altra colpevole della morte di Carlo. Erano tutti e due lì, i veri assassini, si sorprese a pensare Marcon. Sì, il prete misterioso, certo; i suoi probabili complici, sicuro; e anche le streghe, e perfino le bestie che s'erano insanguinate le fauci con la carne di Carlo: tutti colpevoli, come no. Ma lui e Orsolina erano i veri artefici del delitto.

Non era stata pronunciata ancora neanche una parola, da quando era entrato nella stanza. Quando cominciò a parlare, il commissario sentì la sua stessa voce risuonare, senza neanche sapere in quale luogo della sua testa o del suo cuore venissero scelte le parole.

- Mi sento come mi sentivo venticinque anni fa, al Carnevale di Ivrea. Eravamo cinque amici che non volevano iscriversi a nessuna squadra degli arancieri ufficiali, perché ci sembravano tutte troppo organizzate, le sentivamo come se ci limitassero i movimenti e la libertà. E ci organizzammo da soli. Comprammo persino le arance, disegnammo delle magliette di guerra, ci scrivemmo sopra "Amici del portogallo", in piemontese, e con la "A" di amici cerchiata come il simbolo anarchico. Ci piazzammo in una nicchia della discesa che dall'Ospedale di Ivrea porta al Borghetto, costeggiando la Dora. I carri pieni degli sgherri da assaltare tiravano il fiato, in quel punto, nei pochi attimi che precedevano lo scontro nella piazzetta dei Tuchini. Qualcuno si toglieva anche l'elmo, per respirare, e prepararsi al nuovo scontro ufficiale. Avevamo calcolato tutto, ed ero stato io a scegliere il posto; quando i carri arrivavano, saltavamo fuori da dietro il muro che costeggia l'argine, come furie quindicenni sotto i nostri rossi cappelli frigi, e lanciavamo una gragnuola di colpi feroci e inaspettati contro gli occupanti del carro. Di sorpresa e un po' anche a tradimento, noi cinque da soli riuscivamo a stancarli più di un'intera squadra di arancieri organizzati. Ma verso la fine della giornata l'effetto sorpresa era quasi sparito, e noi eravamo ormai stanchi. In quello che avevamo deciso essere l'ultimo assalto, uno di noi salì su un ramo di un pioppo per colpire l'ultimo carro dall'alto. Anche questa era stata una mia idea. Perse l'equilibrio già alla prima arancia che lanciò, e rovinò a terra. Continuò a precipitare lungo l'argine scosceso, batté la testa, perse i sensi. Finì sulla riva del fiume, con la faccia grottescamente nell'acqua e il corpo ancora sulla terra. La caduta era stata dolorosa, gli aveva rotto qualche osso, ma non era certo fatale. Ma era svenuto, e non riprese i sensi. Morì annegato così, in un punto in cui l'acqua della Dora Baltea non è alta più di trenta centimetri.

Si sedette, aspettando un commento da parte di Orsolina, che non venne.

- Ci pensavo poco fa, affacciato alla tua finestra: faccio il poliziotto, metto in prigione i delinquenti, quelli che sono il braccio del delitto e del dolore. Ma cerchiamo mai, sul serio, la causa vera e finale? Quel ragazzo caduto e morto nella Dora... è stata una disgrazia ad ucciderlo, certo. Ma non avessi avuto l'idea iniziale, non avessi scelto quel posto, non avessi notato quel ramo e quell'albero... non avessi fatto niente di ciò, lui sarebbe, quasi certamente ancora vivo. E Carlo con lui, a ben vedere.

Si alzò nuovamente in piedi, trascinò Orsolina sul divano, la costrinse a guardarlo negli occhi, la forzò a sentire e a comprendere le sue parole.

- Sono un poliziotto finito, Orsolina. Lo ero da prima ancora della morte di tuo marito, lo ero già da giorni. La mia carriera di poliziotto è finita nel momento stesso in cui, nel tugurio di quel vecchio strozzino, ho sottratto e distrutto il foglio dove quel porco aveva scritto il tuo nome, e quanto gli dovevi. Già in quel momento ho smesso d'essere un poliziotto. E ho continuato, disceso ancora la china, peggiorato le cose. Ho coinvolto Carlo solo per avere la scusa di capire meglio in quale guaio t'eri cacciata, t'ho messo alle costole un agente in borghese, falsificando rapporti e ordini del pretore. Ho foto di te con quell'uomo mentre ci parli a Stupinigi, ho i tabulati del tuo cellulare e so quali numeri hai chiamato fino a tre giorni fa. E avrò presto anche quelli delle persone con cui hai parlato poi, anche quello con cui parlavi ieri, in macchina, quando ti sei accorta che ti seguivo.

Orsolina respirava più in fretta. Ascoltava, ora. E Marcon parlava sempre più in fretta e più forte.

- Ed è solo perché sono uno scemo. Perché mi chiedevo cosa cercavi in quel tizio, come facevi a entrare in una storia così palesemente sbagliata. "Non ha bisogno di soldi", mi ripetevo. "Non può essere davvero affascinata da uno così", mi dicevo, "lei può avere qualsiasi uomo, può davvero avere quello che vuole". - respiro, pausa, sospiro - Sbagliavo, dimmelo, sbagliavo? Giocavo a buggerarmi da solo, perché non riuscivo neppure a confessare a me stesso che non ero disposto ad accettare nulla che ti dipingesse meno bene d'una madonna? Dimmelo, Cristo!

Orsolina taceva ancora. Ma respirava ansiosa, adesso. E aveva occhi senza luce, ma lucidi e prossimi alle lacrime. Il commissario distolse lo sguardo, si alzò di nuovo, le parlò ancora senza voltarsi, senza guardarla.

- Adesso non c'è più tempo per niente, Orsolina. Nel mio ufficio sarà già arrivato l'avviso di garanzia nei tuoi confronti, se non direttamente il mandato di cattura. E sulla mia coscienza è arrivato un macigno più pesante d'una condanna a morte. Quello che rimane da fare ha poca importanza, ma voglio farlo lo stesso. Ma mi serve che tu risponda a poche domande. E devi farlo subito.

Si girò e avvicinò il suo volto a quello della donna. Lei seduta come pietra sul divano, lui quasi inginocchiato di fronte a lei. La scena era incongrua, grottesca, con Marcon che registrò amaramente il ridicolo della situazione. In ginocchio da lei. Adesso che non aveva più vita né futuro da vivere.

- Sapevi che avrebbero ucciso Carlo?
- No. - Solo un monosillabo, ma era una risposta immediata. Un "no" autenticato da una lacrima.
- Sei l'amante di quell'uomo, del frate?
- No. - Altra lacrima, un'altra ancora.
- Conoscevi lo strozzino? Sai chi fosse la ragazza di Sciolze?
- Sì. Sì. - e i "sì" scendevano veloci, e moltiplicavano le lacrime, e si trasformavano in singhiozzi.
- Cristo - disse piano Marcon - Cristo, Cristo.

 

Capitolo sedicesimo

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