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Il paese ritrovato

Capitolo ventitreesimo

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Sembrava piccola, la Tour Eiffel.
Un giocattolo appena più grande delle migliaia di casette che parevano fatte con il Lego; e in fondo, anche se la festa del suo centenario le aveva lasciato un riflesso cupreo sopra il grigio dell'acciaio, non si stagliava per questo bene sul resto del panorama. Ma i suoi trecento metri le riservavano comunque un aspetto particolare, sull'orizzonte dilatato che si vedeva dal finestrino dell'aereo. Eccola, Parigi. Eccola, finalmente... Marcon aveva sempre desiderato conoscere quella meravigliosa città, e adesso poteva almeno vederla, dieci chilometri più in basso dei suoi occhi. Ma non era la stessa Parigi sognata quando aveva diciotto anni: anche se la Senna continuava lenta a disegnare la smorfia che dava un'aria imbronciata a tutte le mappe del centro parigino, era proprio lo spirito del commissario che non riusciva più a sostenere l'entusiasmo della giovinezza. Si era immaginato di raggiungere la Ville Lumiere dopo una maratona sudata in treni di seconda classe e in caritatevoli autostop, con una canadese biposto chiusa nello zaino, da aprire solo di notte tra l'erba e le stelle, e di svelare i segreti della sognata città giorno dopo giorno, lentamente, in una scoperta continua e certamente incompleta.

Invece Parigi gli era apparsa di colpo, tutta insieme: l'annuncio quasi pubblicitario del pilota l'aveva distolto da pensieri ritorti e semiaddormentati, e come un bambino al primo viaggio aereo aveva ascoltato con attenzione la voce che dall'altoparlante spiegava che il volo era in orario, che l'atterraggio a London Heatrow sarebbe avvenuto nel giro d'una ventina di minuti, che il tempo era bello e la temperatura a Londra ancora accettabile. E quando il pilota aveva alacremente invitato tutti a guardare a sinistra, la capitale francese era già lì, a riempire orizzonte e panorama. La città mai vista e sempre sognata, si offriva per intero e senza preamboli ai suoi occhi: come una donna desiderata per una vita ed ora improvvisamente lì, già nuda nel letto e pronta ad accoglierti.

Non era così che voleva Parigi, pensò il commissario. E quasi sorrise, pensando che non c'era contraddizione: stava solo sorvolando la città, non vi ci sarebbe fermato, e quindi non doveva lamentarsi, perché ancora non "aveva" Parigi in nessun significato possibile della parola "avere". Il gioco crudele e preferito che il suo cervello gli imponeva regolarmente ricominciò di nuovo: si ritrovò ancora a muovere connessioni e metafore, similitudini e analogie, anche e soprattutto dove non c'era ragione di cercarle. Come quel giorno al Palazzo del Lavoro, quando si era lanciato in un disperato e tardivo inseguimento guidato solo dalle musiche che per caso le sue orecchie percepivano nell'ambiente. E, come allora, questa negazione di una città desiderata e mai avuta, e che però appariva presente e invitante negli ultimi sprazzi multicolori del tramonto, dal rosso cupo all'indaco più fosco, gli fece percorrere gli esercizi faticosi della razionalità irrazionale. Perché non era certo la prima volta che un desiderio a lungo trascinato gli veniva alla fine esaudito, ma esaudito in maniera perversa: come se un dio spietato volesse, anziché soddisfare i suoi desideri, mostrargli crudelmente che spesso i sogni che rimangono tali sono più dolci della realtà realizzata. E, esaudendo il desiderio, altro non si faceva se non perdere anche la gioia incompiuta del sogno. Il commissario staccò la fronte dal finestrino, pensando amaramente che, già adesso, non poteva più dire con assoluta sincerità di non aver mai visto Parigi, ad esempio; e questo era già un po' più doloroso che continuare soltanto a immaginarla. Il pensiero rasentava il ridicolo, ed era grottesco anche solo provare ad estenderne il principio ad altri aspetti della sua vita: ma la tentazione di farlo era forte, fortissima, e il vivente simbolo di quella tentazione sedeva addormentato nella poltrona accanto alla sua.

Orsolina sembrava aver dimenticato il suo corpo su quella poltrona d'aereo. Con la bocca semiaperta e la fronte sorretta dal poggiatesta impietoso della economy-class, appariva fuori posto come un albanese sulle coste della Cina. Oh, bella era bella, come sempre. Ma aveva ormai, anche nel sonno, quel fascino contraddittorio delle cariatidi dei Propilei di Atene: belle e perfette, quelle donne di pietra erano congelate e ferme per l'eternità a sostenere un peso immane, una costruzione sopraffina, ma pesante e artificiale. Ma già le metafore si moltiplicavano, ed era difficile seguirle tutte. Aveva Orsolina, adesso: l'aveva forse nella stessa crudele maniera di come aveva appena avuto Parigi? Era davvero Orsolina una cariatide sublime, condannata a reggere il peso di qualcosa per il resto della vita?

Non era così che voleva Orsolina, pensava il commissario. E sotto i suoi piedi l'Europa già cominciava a finire, lasciando intravedere la Manica e le bianche scogliere d'Inghilterra. Non era così che immaginava tutta la sua vita, del resto. Chiuse gli occhi e lasciò fuoriuscire un sospiro rumoroso. Sembrava impossibile, ma erano passati solo cinque giorni da quando era entrato con Carlo nella kermesse stregonesca del Palazzo del Lavoro. Cinque giorni, la settimana lavorativa di un impiegato. E in poco più di un centinaio di ore aveva sepolto un amico che lui stesso aveva mandato a morire; e con Carlo, anche quel povero disgraziato finito quasi per sbaglio nella bocca zannuta del destino: attirato come un marine americano nei tunnel segreti e laboriosi dei vietcong di Indocina, precipitato con accelerazione crescente come un pezzo di ferro attirato da un magnete incurante. Morto e morto ammazzato, anche lui. E non lo consolava sapere che il loro assassino era anche lui diventato carne per i vermi. Anzi.

Il pandemonio delle ultime ventiquattro ore ancora non era sedimentato, nella sua testa. Il suo cervello era ancora come il friabile terreno carsico, incapace di trattenere l'acqua fluida dei suoi pensieri. Gli sguardi sbarrati di Zucchelli e Cociglio, entrati come in un telefilm americano sfondando la porta, pochi istanti dopo lo sparo. Orsolina protetta ancora dalle lenzuola e dalla lucchesina finemente ricamata , come una bambina di fronte alle paure dell'infanzia. Un cadavere senza più volto per terra, col sangue che ancora sembrava correre sul pavimento, quasi avesse fretta di riempire tutta la stanza. E lui in piedi, fermo, manette in una mano e una pistola che aveva ancora la sicura innestata nell'altra. E l'odore di morte, così odiato e così prepotente nelle sue narici, di nuovo. Lui che rifugiava lo sguardo verso il soffitto, per provare a dimenticare il sangue e il cadavere sotto i suoi piedi: e i suoi occhi che provavano a consolarlo, mostrandogli un soffitto perfettamente tinteggiato, lampade eleganti, tende raffinatei e quadri di buon gusto. Ma le sue narici gli portavano ugualmente, impietose, l'odore di sangue e di morte. Gli occhi ingannavano: quella stanza era un mattatoio, nonostante tutto: era la sardigna schifosa d'una macelleria. Restò a guardare il soffitto per chissà quanto tempo, spalle curve e mani appesantite dai ferri d'un mestiere che non sentiva più suo.

Dove se ne va il cervello, in momenti come quelli? Quanti minuti, quante ore erano passate da quel momento a quando si erano ritrovati tutti e quattro in macchina, finestrini chiusi e appannati dal fiato, fermi in un parcheggio della periferia, a decidere di smettere di essere poliziotti, a far finta di non essere assassine? Sentiva la voce quasi calma e comunque densa di disapprovazione di Zucchelli, che prometteva di trovare una soluzione, anche se gli sembrava profondamente sbagliata l'idea di non riportare Orsolina in questura. Sentiva il fluire preoccupato delle contestazioni di Cociglio, a metà tra il paterno e il filiale, che si appellava alla logica primitiva e naturale delle pulsioni primarie.
- Così la signora finisce in galera per vent'anni e il commissario si spara, ispetto'. Non lo vedi che non riesce ancora a staccarsi da lei per più di venti centimetri?"
Erano seduti nei sedili posteriori, lui e Orsolina. E lui le stava stringendo la mano omicida, gliela scaldava e carezzava, senza alcuna intenzione poliziesca. E l'integerrimo ispettore Zucchelli si scaldava, lasciava che il suo volto proverbialmente pallido diventasse per una volta rosso solferino, lasciava che la sua voce baritonale raggiungesse, per una volta, tonalità da contralto.
- Rischiamo tutti la galera, dannazione! Tutti, dannazione! Non solo Calamity Jane, qui, che a questo punto se la meriterebbe pure!

Quanti minuti, quante ore passarono, mentre lui e Orsolina restavano comunque muti e uniti solo dalle mani strette e saldate in quella macchina fredda? Quanto tempo, prima che lo stesso Zucchelli riaprisse la portiera, agitando perplesso la busta variopinta d'una agenzia di viaggio sotto il naso dei tre occupanti infreddoliti?
- Città del Messico, via Londra. - diceva l'ispettore ancora non del tutto rassegnato - e partite domani mattina presto da Caselle. Senza bagaglio. E qui ci sono ventimila Euro, Marcon. Sono i risparmi miei e di Cociglio, e quanto sono riuscito a prelevare dai vostri bancomat prima che il distributore mi avvertisse che avevo superato il limite giornaliero. Dovrete farveli bastare.
E Cociglio sorrideva come se fosse alla scena finale d'una commedia rosa hollywoodiana, impoverito dei suoi quattro soldi e contento come se avesse vinto la lotteria. E Orsolina ancora muta - non aveva detto ancora una sola parola - ancora pallida come una coppa di chantilly, ma con il respiro - forse - appena meno affrettato.

La nebbia di Torino, poi, sul raccordo autostradale verso l'aeroporto. La faccia un po' stupita e un po' assonnata della hostess del check-in:
- Solo bagaglio a mano, signori, fino a Mexico City? - chiedeva perplessa, e poi tornava ad esaminare con attenzione i due passaporti, del resto non indispensabili fino a Londra, quasi fossero due pezzi di pergamena che nascondessero un segreto degno d'un film di Indiana Jones. E ancora Cociglio e Zucchelli fermi davanti all'ultimo territorio dell'aeroporto concesso ai non viaggiatori, impalati, polizieschi, a salutare con cenni del capo il percorso stanco del commissario e della sua adorata assassina verso il gate.

Erano ancora poliziotti, loro. E lui non lo era ormai più. Niente più trench e cappellaccio, niente più sigari da accendere malamente con svedesi bagnati. Il Messico, una donna, e nessun futuro, ecco cosa aveva, adesso. E non sarebbe mai più stato un poliziotto.

Anche perché, pensava con amarezza, negli ultimi tempi non lo era stato davvero. Erano decine le domande che doveva porsi, e che si era rifiutato di farsi. Tutto ruotava attorno ad Orsolina: e lui voleva Orsolina più di quanto volesse restare un poliziotto. Un bravo poliziotto doveva essere come Cociglio, sempre pronto e disponibile, sempre sul luogo dell'azione, anche quando l'azione non è ancora cominciata: proprio come Cociglio era già al Palazzo del Lavoro proprio quando aveva avuto bisogno di lui. Un bravo ispettore doveva essere come Zucchelli, freddo, analitico e disincantato, pronto a guardare ogni fatto come un tassello, pronto a dimenticare tutto quanto non è pertinente all'indagine, e deciso a scavare introno a tutto ciò che pertinente è. E un bravo commissario doveva essere quello che vede la trama ricomporsi, prendere forma nella sua mente, incastrarla nei fatti e nei dettagli, fino a trascendere nella banalità ossessiva degli eventi normali. Un bravo commissario come era sempre stato il commissario Marcon, fino a poco prima di questa indagine.

L'aereo puntava il muso già verso le luci di Heatrow, e Marcon, non più commissario, criticò bonariamente lo sbirro che era stato fino a poche ore prima. "Forse dovevi essere più semplice, commissario. Il peggiore assassino della tua carriera lo avevi visto in faccia, no? Te la ricordi o non la ricordi, la faccia di quel prete, di quel finto Fabrizio Pieri? Davvero?" - please fasten your belts, dice una scritta rossa e una voce inglese - "Ma potevi poi davvero riconoscerla, quando la tua dolce compagna l'ha trasformata in un cratere di ossa, muscoli e sangue?" - signore, raddrizzi lo schienale, per favore - "Perché un colpo in faccia? Certo, la domanda immediata è solo "perché sparargli", ma dopo la prima domanda, anche altre dovrebbero venire..." - le luci si attenuano, e le nuvole inglesi si affollano e corrono dietro il finestrino. Marcon si voltò verso Orsolina - "E tu stai ancora seduta qui, ancora senza aver detto una parola, e io sono qui con te, senza essere più niente e nessuno. Senza chiedermi più niente di Carlo, e di quale necessità ci fosse, poi, di ammazzarlo. Senza chiedermi perché ammazzare anche quel Pieri, quello vero, quello falso, senza chiedermi più niente. E dovrei davvero chiederti un milione di cose".

- Mi chiamo Marco - le dici invece, stupito di tanta viltà. Glielo dici perché ha occhi di nuovo accesi e labbra di nuovo turgide, perché ha aperto gli occhi e ti ha sorriso, perché anche se è un'assassina, è da lei che vorresti essere ucciso - Sì, Marco Marcon. Quasi una ripetizione, un doppio, ed è per questo che mi sembra superfluo dichiarare anche il nome di battesimo. Insomma, sono quasi uguali, e se devo proprio scegliere, beh, preferisco sentire l'accento che cade sulla "o", invece che arrivi repentino sulla prima sillaba. Perché quella "n" in fondo si sente appena, ed è da quando ero piccolo che ho imparato a distinguere gli intimi più per la posizione di un accento che dalla presenza di una lettera in fondo al cognome. Màrco o Marcò, questa è la vera differenza, e so bene che sembra ridicolo, ma, insomma, è solo per questo che...

- Lo, so, Marco. - dice lei, con sorriso e labbra feline. E poi dice che ha paura degli atterraggi, di sentire il momento, per altri liberatorio, in cui le ruote del carrello mordono l'asfalto. Stringimi un po', ti dice. E tu la stringi, incastrato e impedito dalla cintura di sicurezza. E per stringerla meglio slacci la cintura, pronto a combattere con le hostess severe, se ce ne fosse bisogno. E la stringi più forte, e ne bevi il respiro. E devi per forza baciarla ormai... adesso che sei in volo ma prossimo all'atterraggio, adesso che non sei né in cielo ne in terra, adesso che sei certo che l'avrai per sempre, senza averla mai davvero. Proprio come non avrai mai più Parigi, o anche solo Torino.

Operai rumorosi e indaffarati smontano palchi e stand, nell'atmosfera tutt'altro che magica di una smobilitazione. Le luci che durante il convegno erano complici e misteriose sono ora violente e bianchissime, perché non devono più suggerire tenebre e mistero, ma solo mostrare le viti da svellere, le assi da smontare, i profilati da smantellare. Il convegno è finito, il Palazzo del Lavoro ferve finalmente di vero lavoro, e sono poche le costruzioni, per natura transitorie, che ancora non sono state alacremente rase al suolo. In una di queste che resistono, un misero retro-stand che ancora riesce a difendere la sua intimità, siedono due persone in penombra. Un uomo e una donna.

La donna è nera, alta e bellissima. Indossa una corta tunica bianca, una greca di foggia medievale, che le lascia interamente scoperte le lunghissime gambe nere e lucenti. L'uomo indossa un saio marrone, il volto nascosto dal cappuccio. Ha una voce ferma e calma, e sta completando un lungo discorso. Un discorso di investitura.

- Devi ricordare soprattutto questo: che non sono i nostri seguaci, né coloro che ci temono o ci ammirano, a costituire il nostro potere assoluto. La nostra forza risiede tutta nella tenacia degli scettici. Sono gli scettici, i razionalisti che ci consentono di governare gli uomini. Sono loro che scacciano e smascherano gli impostori, quelli che si spacciano per iniziati e che invece sono solo miseri mascalzoni e truffatori. Sono loro che ricordano al mondo che tutto è razionale, spiegabile, logico, lasciando così a noi, intatto, il regno sublime dell'irrazionale, dell'inspiegabile, dell'illogico. Ed è per questo che ogni più piccolo progetto deve avere almeno tre livelli, mia giovane Lupa: uno falsamente mistico, per i poveri di spirito; uno dalla ferrea matrice razionale, per soddisfare gli scettici; e infine quello autentico, vero e iniziatico, riservato solo ai nostri scopi reali. I cattivi prestigiatori usano trucchi pacchiani, e li chiamano magia. I buoni prestigiatori usano trucchi splendidi, e li chiamano trucchi. Noi facciamo magia, e dobbiamo nasconderla prima come bassa pacchianeria, poi come alta prestidigitazione. E non nominare mai la sua vera natura.

Sollevò gli occhi, legandoli a quelli della ragazza.
- Tu sei la mia nuova Lupa. Chi ti ha preceduto ha dato e sta dando il resto della sua vita terrena per noi, per allontanare un pericolo, ancora piccolo, ma che poteva crescere e arrecarci danno. Forse, poteva addirittura distruggerci. Ha spiegato le sue ali di colomba, e adesso culla il falco che girava pericolosamente in cerchio sopra il nostro nido. Ma per farlo abbiamo dovuto ricostruire una logica che al falco fosse comprensibile, perché il suo appetito si placasse. Abbiamo usato uno dei nostri, immolandolo per la causa. Oh, il falco non potrebbe capire fino in fondo il nostro potere: non riuscirebbe davvero a credere che quel nostro fratello è andato incontro alla morte non perché credeva, come ipnotizzato, di essere me, ma proprio perché in quel momento era diventato una parte di me. Non riuscirebbe a comprendere questo, ma potrebbe pensare a una spiegazione razionale, fatta di ipnosi e di droghe, e avrebbe potuto tornare a minacciarci. E a guardare infine, davvero, negli archivi che il nostro Maestro aveva sigillato nel suo computer, o magari risalire fino a capire quanto poteva essergli utile quel maledetto Pieri. Poteva farlo, quello scettico: proprio perché era uno scettico strano, era così scettico da esserlo perfino nei riguardi del suo stesso scetticismo. E allora non c'è restata altra soluzione che farlo innamorare.

- E io ho perso la mia Lupa, e adesso la ritrovo in te. E tu dovrai sempre rammentare i molteplici livelli in cui è organizzata la vita e il mondo, e dovrai sempre dubitare che essi non si limitino ai tre che ti ho ora descritto. Perché "iniziazione" questo significa: scoprire ogni volta un nuovo inizio... Ma ogni inizio potrebbe essere solo un nuovo - e non ultimo - livello: come nella ragnatela complessa della tarantola, fatta di cerchi concentrici, e sempre più densi: al centro di essa, di solito non ci sono altri cerchi di ragnatela. C'è proprio il ragno.

Qualcuno bussò urgentemente alla porta. L'uomo si alzò, e andò ad aprirla: uno spiraglio appena, non più di due centimetri. L'occhio liquido d'un vecchio si disegnò tra i battenti dell'uscio.
- Sta arrivando quel poliziotto, Maestro! E' già nel palazzo, potrebbe essere qui nel giro di due minuti!

Richiuse la porta senza peritarsi di rispondere. Cominciò a sfilarsi il saio, e aprì una ventiquattrore dalla quale cominciò a tirar fuori degli abiti. Guardò la donna, e sorrise.
- Me l'aspettavo. E' qui per me, Lupa, e tu devi sparire di corsa. Cambia vestito, cerca di sbolognare quella tunica a qualcuno dei vecchi, e di' loro di farla sparire. Mettiti addosso qualcosa di poco appariscente, anche se... uhm. Dubito che esista qualcosa di poco appariscente, addosso a te... Ma adesso sparisci, di corsa. Ti chiamerò io.

La nuova Lupa uscì con passo di gazzella e movenze di tigre. L'uomo finì di vestirsi, ripiegò con cura il saio e lo ripose nella ventiquattrore, insieme al cordone che fungeva da cintura. Si controllò l'aspetto, velocemente e in penombra, e aveva già afferrato la maniglia quando si rese conto che stava dimenticando una cosa fondamentale.
La pistola.

L'ispettore Zucchelli era esattamente di fronte alla porta dello stand, quando questa si aprì. Rimase interdetto nel vedere la maniglia muoversi giusto prima che riuscisse ad impugnarla, e corrugò un po' la fronte mentre squadrava l'uomo che occupava il vano della porta.
- Quasi non ci credevo, quando me la l'hanno detto, in Centrale. Che cavolo ci stai facendo in questo posto, si può sapere?

La valigetta che impugnava nella destra lo rendeva un po' insolito, e sul viso aveva disegnata un'espressione non troppo usuale; ma la linda divisa da agente di Pubblica Sicurezza era sempre impeccabile, completa di fondina lucida e gonfia della Beretta d'ordinanza, e in pochi istanti anche il sorriso gioviale di sempre occupò il volto simpatico dell'agente Cociglio.

- Lo so che ci faccio la figura dello scemo, ispettore. Lo so... ma è da cinque giorni che mi chiedevo dove poteva essere finita questa ventiquattrore - la sollevò allegro, agitandola sotto gli occhi di Zucchelli - Capirai, ci sono dentro tutti i verbali delle riunioni di condominio! Quella belva dell'amministratore mi avrebbe divorato, se non la ritrovavo. Poi, stamattina, mi sono ricordato che l'avevo con me poco prima che tu mi chiamassi quel giorno, per dirmi di mettermi di corsa a disposizione del commissario. E allora sono corso qua, giusto il tempo di avvertire in questura e lasciar detto dove andavo, e ho dovuto interrogare venti operai prima che uno mi dicesse che forse la sorveglianza aveva lasciato in questo sgabuzzino tutta la roba perduta e ritrovata che...

- Cociglio, ti prego. In Corso Vinzaglio ci sono carabinieri e prefetto, giornalisti e politici, sindaco e servizi segreti; tutti a cercare di capire che fine abbia fatto Marcon e se la sua scomparsa sia in relazione con quella della bella proprietaria di un appartamento dove ieri sera una donna delle pulizie ha ritrovato un cadavere dal volto ridotto a marmellata. E' appena cominciato il nostro piccolo inferno, se facciamo solo mezza mossa falsa ci ritroviamo all'Asinara, e tu sparisci per questioni di assemblee condominiali? Qui basta un niente, ti dico! Un niente, dannazione! E le fregature peggiori arrivano sempre dalle piccole cose, da dove meno te le aspetti. Sei un poliziotto, lo sai anche tu, no? E cavolo!

L'agente Cociglio sorrise.
- Da dove meno te le aspetti. - ripeté diligentemente - Sì, lo so.

Parolata.it è a cura di Carlo Cinato.
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