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Il paese ritrovato

Capitolo tredicesimo

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Aghi.
Al secondo morso, Carlo li sentì precisi e profondi come aghi. I denti del topo scendevano sicuri nel collo, per tutta la loro minuscola profondità. Ma mordevano sicuri, armati di fame e pazienza. Sentiva anche la prima goccia di sangue scorrergli lungo il lato sinistro del collo, mentre a destra già arrivava minaccioso il solletico prodotto dai baffi d'un altro roditore. Più che per il dolore, urlò per il senso di impotenza; e quello che uscì dalla sua gola fu un rumore sordo e inumano, perché era con estrema fatica che la voce usciva dalla paralisi indottagli dalla droga, ed era con altrettanta fatica che il suono si faceva largo, attraverso la celata che gli chiudeva la testa, nell'aria della fetida segreta. Un roco gorgoglio più bestiale che umano, accompagnano dal clangore metallico del piccolo movimento che, nonostante i legami, era riuscito ad imprimere alla sua testa racchiusa nel metallo.

Udì lo scalpicciare delle zampette dei topi che si allontanavano frettolosamente. L'urlo, o il rumore, o l'insieme delle due cose aveva loro rammentato la prudenza. Li immaginava radenti alle pareti, adesso, indecisi se attendere ancora o riavvicinarsi al suo collo. L'equilibrio delle forze era dato dalla loro fame e dalla loro paura. Li aveva spaventati, con un urlo da oltretomba. Ma per quanto? Avrebbe potuto ripetere l'urlo, spaventarli ancora, ma quando avrebbero capito che all'urlo non sarebbero seguite altri pericoli, cosa avrebbe fatto? Acuì l'udito, l'ultimo senso che gli restava utile in quel frangente, nel terrore di sentire i leggeri scalpiccii di avvicinamento. Si ritrovò a misurarsi la voce, unica arma in quella battaglia, si scoprì a forzare il movimenti della testa, delle braccia, delle gambe, di tutto il corpo. E si rese conto di avere ben poche armi, in quella tragica battaglia. Presto, la sua voce non avrebbe più intimorito nessuno, il suo vestito di metallo sarebbe stato arricchito del vezzo tragico d'una cravatta di ratti, e la sua battaglia sarebbe diventata rapidamente una caporetto.

Solo e immobilizzato, inchiodato per terra come un cristo cui è stata negata persino l'ultima dignità della croce, sentì gli occhi ciechi riempirsi di lacrime. Dannazione, anche questo, adesso... piangere così, di paura e terrore, dopo anni che non versava una lacrima. Gli occhi abituati a vedere la luce scoprivano vecchie e dimenticate abitudini, perchè impossibilitati a vedere; la paura del buio, dell'ignoto, e dell'ignoto supremo e ultimo, la morte. Solo stamattina, solo stamattina, il mondo era del tutto diverso... ricordò la luce che filtrava di scatto dalla veneziana, quando come sempre aveva tirato le cordicelle per salutare il sole. Una mattina di sole, come le altre, con la luce che mosaicava di strisce orizzontali il parquet della stanza da letto. Il letto senza Orsolina, dov'era Orsolina adesso? Poi di corsa verso l'appuntamento con Marcon, dov'era Marcon adesso? E poi quell'uomo, quel demonio, quel diavolo! Torna qui, maledetto! Segui le regole, almeno, contratta per avere la mia fottuta anima, figlio di troia!

Ancora passettini timidi e felpati. Ancora lontani, e non li avrebbe mai sentiti se il suo udito non fosse all'improvviso diventato così importante e sensibile per lui, in questo momento. E di nuovo il terrore, l'angoscia, mischiati alla rabbia che era salita nei sui pensieri.
- Figlio di troia! - urlò di nuovo, non più solo con pensieri, ma con voce e corde vocali nuovamente sonore e vive, e l'insulto, da Carlo urlato al prete, ai ratti e al mondo intero fece di nuovo bloccare gli scalpiccii dei roditori. Di nuovo silenzio.
Ma per quanto tempo ancora?

Ed era proprio il tempo, che preoccupava Marcon.
Quando, ancora al Palazzo del Lavoro, si era osservato come si osservano gli altri, aveva visto un impacciato commissario di Pubblica Sicurezza immerso in un bailamme di persone rumorose e potenzialmente pericolose. Aveva osservato il pennarello color magenta che l'altro Fabrizio Pieri gli aveva messo in mano, notando persino le macchie antiche sulla manica del suo impermeabile. Vedeva ancora in lontananza Orsolina, diretta finalmente verso l'uscita; anzi, ne vedeva ormai solo la figura lontana e la chioma rossoscura che ondeggiava su quelle spalle rotonde che gli toglievano il sonno. Il tizio gli aveva dato un pennarello e uno sguardo d'intesa, e il rosso dei capelli di Orsolina parlava da solo: "A te la donna, commissario: al mio omonimo e a Carlo penso io", dicevano quegli occhi muti. E gli era sembrato logico e provvidenziale, quell'aiuto; proprio mentre i meandri formati dalla folla sembravano invalicabili, proprio quando avrebbe avuto bisogno di duplicarsi per seguire sia Carlo e il prete, sia Orsolina, ecco che arriva questa manna dal cielo, a risolvere l'angoscia e i dubbi.

Ma la manica del suo trench era sporca. Era sempre il suo vecchio trench, quello con cui giocava a darsi un tono da sbirro americano. E la macchia era forse ancora una vecchia macchia di ketchup od d'olio di frittura, qualcosa comunque di ben noto e familiare, che serviva a riportarlo dentro la sua propria pelle. Pelle di sbirro.
Cominciò a lanciare in aria, facendolo roteare, il pennarello magenta, riafferrandolo al volo; occupare le mani faceva fluire meglio i pensieri. Orsolina era ancora in vista: andava senza dubbio seguita, ma non doveva essere un compito difficile. Brillava di luce propria e di fascino, anche in quel congresso di stranezze da esportazione e di fortissime appariscenze. La sua camminata era un "largo", una marcia maestosa come il secondo, troppo spesso ignorato, movimento della Quinta di Beethoven. E l'idea di associare una musica a quell'ondeggiante camminata femminile, quasi lo riscosse del tutto. Decise di ascoltare e dedurre, di rubare le decisioni da prendere alle cento musiche accavallate che infestavano l'aria. Doveva filtrare suoni e odori, e lasciare che il suo vecchio istinto di poliziotto tornasse dalla vacanza che si era preso sull'onda di esse. Uno stand ogni tre risuonava dei Carmina Burana di Orff, che veniva evidentemente ancora assai ben considerata come musica d'ambiente misterioso e stregonesco; decise di ignorarli, servivano solo a ricordare l'enorme peso che anche in quest'ambiente avevano i luoghi comuni e gli stereotipi. Andava quindi filtrando via quel rumore, accendendo le orecchie alla ricerca di musiche meno comuni e più ispiratrici. E, nel frattempo, il suo cervello aveva già cominciato a rivestire il vecchio trench del poliziotto.

"Qual e' è il vero Fabrizio Pieri?" - cominciò - "Se è davvero il secondo, Carlo è nelle mani d'un mistificatore, e un mistificatore è pericoloso. Devo proteggerlo, e non posso certo fidarmi a lasciare la sua incolumità affidata alle capacità di pedinamento d'uno sconosciuto..." - e un rondò, nello stand che stava affiancando in quel momento, salì di tono e di ritmo. Marcon lo interpretò come un segnale d'assenso - "E, invece, se il falso Fabrizio fosse proprio il dispensatore di pennarelli rossi, beh... ci mancherebbe solo che un commissario della Questura Torinese si mettesse a seguire gli ordini del primo matto che passa..." - il rondò era sfociato in un'arabesca dal ritmo sincopato e screziato; non del tutto spiacevole, ma ricco d'urgenza. "E allora, e allora?", sembrava incalzare la musica. "E allora niente" - sbuffò mentalmente Marcon - "non solo Carlo e il frate devono essere seguiti, ma non posso neanche permettermi il lusso di perdere di vista quest'altro figuro appena arrivato. Anche il secondo Pieri deve essere seguito, è palese. Altro che manna da cielo, i pedinamenti si sono raddoppiati...". Cos'era questa, adesso? Cosa usciva da quel minuscolo altoparlante d'una minuscola radio a transistor dimenticata dietro il bancone del bar? Una vecchia canzone napoletana... "Ah, significa forse che mi sto lasciando prendere dal pessimismo, la vita è uno schifo, specie la vita d'un commissario. O che invece forse la sto vedendo troppo scura? Il frate e Orsolina si sono parlati con gli occhi, forse sanno dove ritrovarsi; forse il seguire lui o lei è lo stesso, forse si arriva sempre allo stesso luogo. E forse il secondo Pieri era sincero, forse davvero si appresta a seguire Carlo e il suo ladro d'identità. E, se così fosse, i quattro da seguire tornano a riunirsi in un unico, affollato pedinamento".

Il commissario si fermò, ormai a pochi passi dall'uscita. Carlo e il prete stavano raggiungendo la macchina, ma gli sembrò davvero di notare il tizio del pennarello affrettarsi dietro di loro, con fretta e cautela. Orsolina era ancora visibile, si stava allontanando a piedi, senza fretta, forse diretta alla sua utilitaria, parcheggiata chissà dove. Forse, davvero, tutti stavano convergendo nello stesso posto, quando ormai la sera vestiva Torino delle prime luci artificiali. Forse. Ma quanti "forse", dannazione! Poteva davvero rischiare? Si voltò un attimo, e realizzò di aver nuovamente raggiunto il bancone con la receptionist bionda; dallo sguardo spaventato che la ragazza gli rivolse, Marcon capì anche che lei si ricordava benissimo di lui. Non era più in piedi dietro il banco, sostituita nel compito da una specie di burattino inamidato che dispensava sorrisi antitartaro a tutti i nuovi venuti; se ne stava invece quasi rannicchiata su uno sgabello troppo basso, con un panino pomodoro e mozzarella a metà strada tra mano e bocca, un tascabile aperto a pagina 123, e le cuffiette del walkman ad isolarla dal resto del mondo. Nonostante la fretta impellente, Marcon fu intenerito dalla visione, complice forse la posizione vulnerabile della ragazza, e la palese privata intimità che le dava il sandwich e il duplice tentativo di isolarsi dall'ambiente, tramite libro e musica. Tentò di sorriderle, mentre già decideva per conto proprio che il libro doveva essere l'ultimo romanzo della Allende o della Serrano, o al massimo un Banana Yoshimoto; si chinò velocemente per farle vedere che sorrideva, e nel contempo aguzzava le orecchie, certo di riconoscere nelle note acute e non amplificate del walkman l'ultima Carmen Consoli, o addirittura un latinoamericano da discoteca. Nel chinarsi, quasi gli si incrociarono gli occhi, quando riconobbe nel tascabile il "Diario d'un seduttore" di Kierkegaard. La ragazza, completamente terrorizzata dal poliziotto in trench che continuava ad avvicinarsi con un sorriso ebete in faccia, restò a bocca semiaperta, senza neanche la forza di fermare la fetta di mozzarella che ormai stava decisamente per caderle sulla gonna del tailleur blu aviazione.
- Kierkegaard, bamboletta? Ma allora cosa diamine ascolti? - e le strappò le cuffiette dalle orecchie, al limite della malagrazia - Incredibile, davvero incredibile. Questa è una veneziana di Giustinian. Sei davvero una sorpresa, bamboletta!
Con la bocca ancora ingombra del boccone precedente, la fanciulla tentò di giustificarsi - Studio Lettere e Filosofia a Palazzo Nuovo, e frequento anche il Conservatorio, ma ogni tanto devo lavorare per le tasse, e così...
- Shhht. Hai interessi troppo elevati per giustificarli di fronte ad un poliziotto di mezza età, bamboletta. Ma hai anche gambe troppo belle per leggere Kierkegaard, però. Scusa l'invadenza, e grazie. Mi sei stata davvero utile.
Marcon restituì con la massima gentilezza di cui era capace le cuffie alla ragazza, che adesso era ancora più confusa di prima, mentre cercava al tempo stesso di ricevere le cuffie, impedire al panino di sfaldarsi del tutto, e possibilmente anche di coprirsi un po' le gambe che il basso sgabello impietosamente scoprivano, come il commissario le aveva fatto notare. Era sorpresa dalla tenerezza che il commissario era riuscito a mettere dentro quell'imprevisto sorriso, ed era molto sorpresa di vederlo adesso di nuovo duro, volto serio e concentrato, mentre cominciava a correre verso l'uscita e a mettere la mano destra sotto l'ascella sinistra.

La mente del commissario correva veloce, assai più veloce delle sue gambe. Per quanto sciocco fosse, il gioco di far guidare le sue azioni dalle musiche che assalivano i suoi timpani era servito a ridargli fiducia in sé stesso, e subito dopo a toglierla. Non avrebbe mai detto che la bamboletta studiasse Filosofia, e questo significava solo che anche il suo celebrato istinto di poliziotto poteva prendere delle cantonate. E quella musica struggente che ascoltava? Ah, mai e poi mai, si sarebbe immaginato una cosa del genere... niente da fare, non poteva fidarsi troppo delle sue capacità, tanto meno poteva lasciare le cose al caso. Continuava a correre, mentre la sua mano destra aveva ormai raggiunto l'arnese metallico che, pur odiandolo con tutte le sue forze, portava sempre con sé sotto l'ascella. Doveva almeno arrivare a vedere la macchina con cui quel frate o prete o quel che era si stava portando via Carlo: gli bastava vederla, inquadrarla un attimo, poi avrebbe usato quella diavoleria. Una diavoleria alla mostra del diavolo, non ci stava nemmeno male. Così almeno avrebbe imparato ad andare in giro con la sua macchina, che non aveva a bordo neanche uno schifo di radio.

Li vedeva ancora, per fortuna. Lontani, ma chiaramente. Inquadrò la macchina, una station wagon, già messa in moto, già sul punto di partire. Si piantò bene sulle gambe, e finalmente estrasse del tutto l'oggetto che la sua destra stringeva sotto l'ascella ormai da qualche minuto. Lo soppesò, e infine lo guardò. Con odio.
Il commissario Marcon odiava i telefoni cellulari. Li odiava visceralmente.

Lo schermo del telefono mobile lo intimidiva. Con l'indice impacciato, compose il numero del commissariato di Corso Vinzaglio.
- Pubblica Sicurezza, Commissariato Torino Centro. Chi parla?
- Sono quell'imbecille di Marcon , in piena giornata libera. Chi c'è di turno, oggi?
- Commissario? Ma è proprio lei? Ma come... da dove...
- Non fare l'imbecille tu, ho già detto che oggi l'imbecille sono io. E sì, dannazione, sto chiamando dal telefonino. Se mi conosci, dovresti capire al volo che è una cosa urgente, no? Vuoi dirmi chi cavolo c'e in questura, adesso?
- Uhu. Certo. Allora, ispettori Borghini e Zucchelli, viceispettori Ferrero e ...
- Basta così - gli era andata bene, almeno questa - passami l'ispettore Zucchelli. Di corsa, per favore.
- Capo? - erano passati solo una ventina di secondi, prima che la voce nasale dell'ispettore Zucchelli si sentisse all'altro capo del filo - Sei davvero tu, che telefoni, o è un altro di quegli scherzi cretini che...
- BT074HJ, Zucca. Segnati questa targa, è quella d'una Opel grigio metallizzata, una station wagon, ma col cavolo che so dirti il modello. Adesso manda subito un avviso via radio. La macchina va discretamente seguita, voglio che abbia sempre incollate al sedere un paio di pantere, è chiaro? Ma non fermatela, non fate niente se non notate qualcosa di anomalo o pericoloso. Dentro c'è un incensurato, un mio amico, che non ha fatto niente e a cui non deve succedere niente, ma al volante c'è un tipo strano che potrebbe essere coinvolto nell'omicidio dello strozzino e in quello della ragazza di Sciolze.
Marcon tirò il fiato, soprattutto per dare modo all'ispettore di prendere subito le misure dell'emergenza. Zucchelli confermò con prontezza d'aver capito: la voce scanzonata era già diventata fredda e totalmente professionale.
- Ultima posizione nota della vettura, commissario?
- E' appena uscita dal parcheggio del Palazzo del Lavoro, ha svoltato a sinistra, in direzione delle Molinette. Se siamo fortunati, un auto del commissariato di Via Nizza riesce ad incollarglisi subito appresso. Il sospetto alla guida al momento è vestito da frate, ma non dubito che cambierà indumenti appena possibile: è un tipo ben alto, ben piantato, sulla quarantina. Capelli ancora scuri, senza l'ombra d'una brizzolatura. Per quel che può servire, sembra essere un tipo abbastanza arrogante, anche se sa essere affabile. Modi decisi e spagnoleschi, se capisci cosa intendo; ma riesce a nasconderli benissimo, se gli fa comodo.
- Adesso vediamo, commissario... c'è dell'altro, vero?
- Sì, che c'è dell'altro. E' possibile che quella macchina sia seguita a sua insaputa da un'altra vettura, bisognerebbe non perdere di vista neanche questa...
- Targa?
- Né targa, né marca né modello, mi dispiace. Il massimo che posso dire è che alla guida dovreste trovare un tizio che forse ha ancora appeso sul petto un cartellino con la scritta "Fabrizio Pieri" sulla maglietta. Potrebbe essere tanto distratto da dimenticarselo appeso alla maglia come un'etichetta. Se il cartellino non l'ha più, beh... la maglia è una di quelle senza collo, a maniche lunghe, blu scuro... come diavolo si chiamano? argentine, mi pare. E il tizio porta occhiali rotondi senza montatura, anche lui tra i quaranta e i cinquanta, statura media, castano, occhi marroni... bah, una di quelle descrizioni che non servono a niente, tanto sono generiche.
- Questo va fermato, arrestato?
- Niente affatto, Zucca. E' qui il difficile. - Marcon fece sentire il sospiro perfino attraverso il telefono - Questo non l'ho neanche ben inquadrato, potrebbe essere perfino una brava persona. Ma se sta seguendo i due, bisogna lasciarlo fare. Cerca di spiegarlo per bene ai nostri, mi raccomando. Non voglio scene da telefilm americano, non devono scattare né manette né tanto meno grilletti, se non compaiono situazioni di pericolo imminente.
- Tutto chiaro, fin qui - disse Zucchelli - lei che fa, arriva qui in Centrale?
- No, non ancora... - il commissario non aveva ancora chiaro in testa nemmeno lui come gestire l'ultimo pezzo dell'azione di pedinamento. Sbuffò - Zucchelli, dannazione, c'è ancora una persona da pedinare, e vorrei farlo io. Ma sai come me la cavo in queste cose, no? Mi ci vorrebbe un autista, uno di quelli bravi... sennò, sicuro come le tasse, appena quella sale su un mezzo a motore me la perdo subito, e così...
- Commissario, scusi se l'interrompo, ma anche lei è al Palazzo del lavoro, dove c'è la festicciola delle streghe? Se è così perché non si fa aiutare da Cociglio?
- Cociglio qui? Caspita, ma è perfetto! Ma che ci fa qui, non doveva venirci quella piaga del Sarti?
- No, Sarti è in mutua, Capo. - l'ispettore stava tornando ad un tono più confidenziale - Si è intossicato, è ricoverato al Maria Vittoria. saturnismo, dicono... e i maligni sostengono che ha ingoiato pallini di piombo perché non ha pulito bene i due fagiani che lui stesso ha steso in una battuta di caccia.
- Meglio così. Chiama Cociglio, digli che lo aspetto all'ingresso, e digli di fare in fretta. Abbiamo una valanga di schifezze da spalare, ci vorrebbero un paio di bulldozer e in mano abbiamo si e no una bresciana.
- Certo, capo. Guardi però che non è facile trovare l'Opel, se non siamo fortunati nell'incrociarla nei prossimi dieci minuti... è una macchina dannatamente comune, questa è una sera senza traffico, e in un amen quello possono pure finire fuori città...
- Lo so, Zucchelli, lo so... perché credi che abbia deciso di usare questa trappola di telefono, se no? Proviamoci, almeno. Di' a Cociglio di sbrigarsi, dai...

 

Capitolo quattordicesimo

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